Non è la prima volta che propongo ai miei Lettori un testo a firma del Prof. Salvatore Sfrecola, ritenendo che l'alto livello dei contenuti possa essere di sicuro interesse.
Il testo è stato pubblicato sul sito de "Un sogno Italiano", nel cui contesto sono fruibili altri eccellenti interventi.
Questa volta l'Illustre Docente - nonché Magistrato di alto rango della Corte dei conti - interviene sul tema generico della giustizia: un tema certamente in evidenza nelle coscienze degli italiani.
Auguro buona lettura...
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Divagazioni
generiche sulla giustizia in Italia: in margine alla presentazione del libro del
Prof. Sapelli “Chi comanda in Italia”
di Salvatore
Sfrecola
Va
di moda da qualche tempo scrivere di “chi comanda” e dove. A Torino, a Roma,
libri con profluvio di nomi che, anche se sono i soli acquirenti del libro e le
loro famiglie già assicurano una buona riuscita del
volume.
Diverso
il caso volume di Giulio Sapelli “Chi comanda in Italia” (Guerini e Associati,
2013), nel quale lo storico dell’economia dell’Università di Milano spazia al di
qua e al di là dell’oceano per ripercorrere il fil rouge dei poteri forti
in economia. Senza trascurare la Germania di Frau Merkel e le sue
strategie.
Il
volume è stato presentato l’altroieri alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De
Felice, a Roma, in via Genova 24. Hanno introdotto il Prof. Giuseppe Parlato,
Ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali
di Roma e Presidente della Fondazione ed il Prof, Gaetano Sabatini, ordinario di
storia economica a Roma Tre.
È
seguita una dotta dissertazione dell’Autore che ha evocato fatti e scritti di
autori italiani e stranieri. Nel corso del suo intervento il Prof. Sapelli ha
parlato anche di giustizia, criticando la funzione di supplenz a della
magistratura che da ordine si è trasformata in un potere dello Stato. Un po’
quello che ripete da sempre Silvio Berlusconi e ripetono gli uomini e le donne
della sua parte.
Diciamo
che c’è un po’ di confusione e più di qualche approssimazione, in dottrina e di
fatto.
Non
c’è dubbio che l’esercizio della giurisdizione sia espressione di un potere
dello Stato quello, appunto, di “dire il diritto”, iusdicere, così
assicurando la corretta applicazione delle leggi che fa il Parlamento. Che poi
l’esercizio della giurisdizione sia affidato ad un corpus di funzionari
dello Stato dotati di specifica preparazione ed assistiti da indipendenza non
modifica la posizione istituzionale dell’esercizio della funzione
giudicante.
L’accusa
mossa ai giudici di debordare, di svolgere in alcune circostanze un’azione di
supplenza del potere politico, ricorrente da più tempo, è cosa diversa, è la
prova che il bilanciamento dei poteri di fatto non è attuato, che il potere
legislativo è carente sotto il profilo della predisposizione delle norme di
diritto sostanziale e processuale attraverso le quali si realizza, da un lato,
la determinazione delle norme, civili e penali, e, dall’altro, l’esercizio della
giurisdizione, cioè l’affermazione del diritto nel caso concreto. D’altra parte
il potere amministrativo manca gravemente nell’esercizio della funzione sua
propria.
Cominciamo
col dire che i giudici applicano le leggi che fa il Parlamento. Le applica
interpretandole (la distinzione tra applicazione ed interpretazione, cara a
taluni è una immane sciocchezza) con un impegno professionale che è tanto più
complesso quanto più oscura è la norma. Una oscurità determinata da vari
fattori. In primo luogo dall’uso di parole di equivoco significato giuridico,
magari perché oggetto di diversi e variegati comandi legislativi, per non dire
della ricorrente esterofilia per cui un po’ per l’endemico provincialismo
italico, un po’ per confondere le idee al “popolo sovrano” vengono introdotti
termini stranieri dai molteplici significati. Un esempio per tutti, la
parola mobbing non viene usata nelle normative dei paesi
anglosassoni.
Le
difficoltà di interpretazione portano con sé inevitabilmente varietà di
indirizzi giurisprudenziali. È normale in ogni ordinamento. Ma se la cosa assume
aspetti patologici ci sono due modalità di intervento. Del legislatore con norma
di interpretazione autentica o del sistema giudiziario attraverso l’intervento
nomofilattico del giudice della giurisdizione. Ovunque le Corti supreme mettono
ordine in presenza di pronunce eccessivamente
contrastanti.
In
assenza di questo tipo di interventi è evidente che il cittadino rimane
sconcertato.
Nel
complesso, poi, è evidente che la responsabilità del buon funzionamento della
giustizia è conseguenza del sistema normativo nel suo complesso, come accennato.
Le regole le detta il Parlamento. Se non le fa o le fa in modo da non assicurare
l’effetto voluto non è colpa del giudice.
Ancora,
l’ipotesi della “supplenza”. Lo si dice in conseguenza del cattivo uso che dei
rispettivi poteri fanno il potere legislativo e quello amministrativo. Nel senso
che se sembra che il giudice si sostituisce al Parlamento o al Governo vuol dire
che c’è un vuoto grave. A volte è solo effetto della sovrapposizione di
comportamenti diversi o dell’assenza di comportamenti.
Un
esempio, l’ILVA di Taranto quando qualche bella testa ha accusato la
magistratura di fare “politica industriale” decidendo la chiusura di alcuni
altoforni ritenuti inquinanti. Ancora una volta qualcuno non aveva fatto il
proprio dovere. Perché se un impianto industriale inquina è dovere del giudice,
a tutela della salute, fermarlo. Ma spetta all’amministrazione disporre gli
interventi necessari per ripristinare le condizioni di legge per il corretto
esercizio dell’attività industriale.
Troppe
volte la politica è intervenuta a gamba tesa a fronte di azioni giudiziarie
scomode con grave danno per la salute. L’acqua è inquinata? Niente problemi,
alziamo il limite della tollerabilità di un fattore
inquinante.
A
Taranto il giudice sequestra il prodotto finito a garanzia degli interventi
risanatori? Fa “politica industriale”. Nessuno pensa di criticare chi ha omesso
di intervenire a far rispettare le regole.
Il
fatto è che in Italia è frequente la trascuratezza del legislatore e
dell’amministratore sicché il giudice, messo alle strette, deve intervenire
individuando un reato anche dove sarebbe possibile una precisazione normativa o
una iniziativa governativa.
A
volte non si interviene per non far emergere errori od omissioni e si attende
che un altro potere assuma qualche iniziativa. Se sono latitanti Parlamento e
Governo nessun problema. Ma se è il giudice ad intervenire, soprattutto in
materia di sicurezza e salute ecco che deborda.
Non
accadrebbe se ognuno facesse il proprio dovere, tempestivamente ed
appropriatamente
30
novembre 2013
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