sabato 28 settembre 2013

MA GLI ITALIANI HANNO DEI SOGNI? (parte 3)

 
Ancora ieri sottolineavo il caos che appariva dominante nel contesto della vita politica italiana, con inevitabili quanto rilevanti ripercussioni sulla vita sociale ed economica della Nazione: ivi inclusa la sua valutazione agli occhi degli osservatori internazionali.
 
Si è consumato uno strappo a livello governativo che in molti definiscono una "forzatura", altri un "contro-bluff"  a fronte di un presunto "bluff" altrui, altri ancora un "rilancio" coraggioso e temerario  (per altri, sconsiderato) per costringere la/le possibile/i controparte/i a puntare sul piatto tutto ciò che le/loro "resta". 
 
Credo che parlare di accadimenti improvvisi o imprevisti, non sia il caso.
 
Anche perché non va trascurato che il Premier si era recato preventivamente a conferire con il Capo dello Stato: situazione nel cui contesto certamente sono state esaminati fatti e comportamenti sia su quanto fosse fino ad allora accaduto sia su quanto sarebbe potuto accadere nell'imminente futuro.
 
A ciò si aggiungano le fibrillazioni violente che percorrono i vertici di ogni parte politica, cui contribuiscono le considerazioni/pulsioni/atteggiamenti delle diverse componenti interne.
 
Certamente, la situazione è arrivata ad un punto di svolta: tanto per "vedere" le carte dell'avversario che per mettere a nudo limiti e ambizioni dei purosangue che stanno scaldandosi per una possibile competizione elettorale, soppesando abilmente anche i team di supporter.
 
Ci si avvia quindi verso la conta nell'ambito di ogni contesto, nella consapevolezza che ogni parte è cosciente che questa volta - se elezioni ci dovessero essere - ci si gioca tutto, inclusa la stessa sopravvivenza politica.
 
La sopportazione degli italiani è pari al loro umore e ogni tipo di sopportazione ha i propri limiti, specie nel constatare come la gente sia stanca di essere presa in giro anche attraverso chi - nella "lotta dei comunicati" - ora  viene indicato quale "vittima" ora quale "mandante" o "complice" di efferatezze.
 
Forse qualcuno conta sulla disaffezione montante di un elettorato stremato e disilluso, così che i più organizzati e presenzialisti possano facilmente avere la meglio: ma sarebbe la vittoria di una parte certamente minoritaria e forse poco  rappresentativa dell'elettorato nel suo complesso.
 
Qualcun altro forse conta su una rinnovata presa di coscienza dell'elettorato; stanco e deluso, sì: ma conscio che si possa essere arrivati alla classica "resa dei conti", cui non si può mancare.

Qualcun altro ancora, sostiene che non si può parlare di "crisi" in un contesto dominato dalle crisi, dai tentativi per determinarle, dagli sforzi per domarle.  Così che anche questa, pur se più tempestosa delle altre, potrebbe essere l'ennesima: forse utile a distogliere l'attenzione da possibili o imminenti accadimenti nell'area Euro, tipo la creazione di un'Euro/Unione Europea a due velocità, se non altro.

Altri invece, che dicono di saperla lunga circa le italiche cose, non credono che ci si trovi dinnanzi a situazioni casuali ed a conseguenti pulsioni reattive. Credono che i mesi trascorsi dalle ultime elezioni, lastricati di buoni propositi e percorsi da squassanti saette, siano serviti per "arrotare le armi" preparandosi alla "battaglia finale".  Forse preventivando nuove alleanze all'insegna della trasversalità, forse non negandosi ad assidui (ma anche compromettenti, forse) corteggiamenti.

E a far propendere per questa ultima tesi sono gli strani "silenzi" di quelle componenti politiche che fino a ieri non tralasciavano di far trasparire la loro rabbiosità, la loro contestazione  "a prescindere".   Forse, hanno speso troppe parole, troppi insulti, prima? Chissà. Potrebbe darsi che invece stiano facendo degli sciacqui per avere la voce meglio udibile.

Una cosa è certa: gli italiani non ne possono più di disparità e incompetenze, non ne possono più di tasse, guardano con raccapriccio le casse statali esauste, non capiscono come i politici si permettano di menarli ancora per il naso, sono stanchi - veramente stanchi - di vedere che, in pratica, tranne i tanti cerotti messi qua e là manchi la cura energica ed energizzante.

Soprattutto, gli Italiani sono stanchi di chiacchiere, delle tante chiacchiere, del continuo bombardamento di parole sciolte ed a pacchetti.

E sono anche consapevoli da mesi che il "muro contro muro", piuttosto che non un "governo per l'Italia e gli Italiani", non avrebbe portato a niente di buono: così come le responsabilità che, salomonicamente, vengono attribuite ormai indifferentemente a tutte le parti in causa.

Non si può quindi rinviare il "fare", con pragmatica chiarezza e rapidità: tentare di dare corpo e "senso di fattibilità" a sogni e utopie, è cosa ben diversa.  Poco reale e quindi inconcreta ed effimera.
(fine)

Roma, 28 Settembre                                                          Giuseppe Bellantonio
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giovedì 26 settembre 2013

MA GLI ITALIANI HANNO DEI SOGNI?... (2°parte)


Come titolano i tg – sono da poco passate le 20,oo del 22 Settembre, allorché ho iniziato questo articolo - “Il trionfo di Angela” é il titolo che domina le notizie, riferendosi ai risultati della tornata elettorale in Germania e al lusinghiero risultato ottenuto dal premier Angela Merkel.

Un dato scontato, per chi di politica ne sa, una lezione per i politicanti di scarsa preparazione che calcano (e purtroppo dominano) l'italico proscenio.

Il dato scontato è basato sulla ovvia constatazione che un Paese che marcia molto bene rispetto a molte altre Nazioni europee (senza andare al di fuori della UE), non cambia gestione amministrativo-politica solo per “cambiare” o “per dare una lezione” a qualcun altro: non ci si taglia le tonsille per fare dispetto a mogli nervose o ad altro.

Una Nazione abituata a pianificare e ad operare sulla base di una progetto comunque comune (ossia a favore del popolo, del Paese) e di un programma per realizzarlo, con la concreta proiezione di poterlo proseguire (salvo aggiustamenti che non potranno che potenziare l'apparato statale e le risposte che questo sarà in grado di offrire), non può che fare scelte coerenti ed affatto umorali.

Potrà poi piacere o non piacere, ma è comunque un esempio di coerenza dell'elettorato tedesco (e quindi, del popolo tedesco) che non è affatto disposti a fare salti nel buio: anzi, è pronto a rafforzarsi, lavorando ancor di più e consolidando sul piano internazionale non tanto l'immagine di una Nazione super-efficiente quanto tutto l'efficacia di una presenza commerciale che si è ampliata in misura notevole, andando anche a colmare la presenza di aziende di altre Nazioni strangolate da debiti ingenti, da una anacronistica visione del rapporto di lavoro, da una pressione fiscale praticamente insostenibile, da una perdurante assenza di programmi strutturali da porre immediatamente in essere.

Ecco perchè le elezioni tedesche sono anche una lezione per “allievi” e “osservatori” che di politica (ricordiamo la base lessicale della parola, polis, ossia “città” - riferito al periodo in cui vi erano città-stato - : in modo estensivo, tutto ciò che riguarda la città e chi la abita, ossia i cittadini) poco ne sanno, ancor meno ne hanno studiato ovvero avuto una qualche rudimento preliminare, e poco o niente hanno a cuore REALMENTE gli interessi dei cittadini.

Così che il tutto ci riconduce, inevitabilmente, all'abisso che ormai separa il mondo della politica , dei politologi e dei politicanti dalla vita reale: né più né meno quello che accadeva in un qualche staterello più o meno grande allorchè le truppe erano falcidiate al fronte, in preda a ordini contraddittori e fantasiosi, mentre nella capitale generali e politici discettavano di strategie e tattiche in comodi salotti dove non si facevano mancare prelibatezze e cibarìe varie, oltre che la delicata compagnia di altrettanto delicate dame.

E se per caso c'era qualcuno, tra costoro, che volesse impegnarsi di più, era un qualcuno che tentava di giocare su più tavoli, negoziando la sua sopravvivenza futura (politica o militare, in questo caso) nel caso in cui a vincere (o a “sopravvivere” alla sconfitta) fossero stati gli “altri”.

Ma le truppe? Continuavano a morire.

Ma non c'era nessuno che se ne preoccupasse?

Tutti, a parole.

Nessuno, nella pratica.

La Germania, al pari dei Paesi dell'Area Nord, solo con un occhio (un po' miope, se vogliamo) sta al presente; con l'altro occhio (più efficace, nell'acutezza della visione) guarda al futuro, preparandosi al meglio a prevenire ovvero fronteggiare una possibile (anche se poco probabile, almeno paragonato a ciò che gli altri hanno patito, patiscono e patiranno) crisi del loro Paese.

Crisi intesa nel senso più “morbido” del termine, in questo caso.

Anche perchè se e quando loro dovessero correre il rischio della crisi, gli altri staranno molto peggio; ovverosia, anche se ci fosse crisi “staremo meglio/meno peggio di altri”.

Non dimentichiamo che in Germania il raffronto di alcuni dati riconducibili al benessere economico-finanziario (dati 2010, 2011, 2012) sono a mio avviso indicativi di difficoltà tendenzialmente non lontane come si vorrebbe far credere: un PIL che dal +4,2% del 2010 è passato al +3% del 2011, per fermarsi ad un tiepido +0,7% del 2012; un rilevante calo nei consumi; una soglia di “recessione tecnica” ormai visibilmente prossima , anche se non raggiunta.

La locomotiva si sta fermando? Certamente ha rallentato molto.

Ma la cosa che tutti sanno e che pochi dicono é che la Germania fa in primis i propri interessi nazionali (mi spiego: cura, salvaguarda, tutela anche in chiave futura il benessere dei propri cittadini, delle proprie aziende e di chi vi lavora, dei propri investimenti – come nazione – e di quelli delle società tedesche, dei propri asset finanzari); riverbera poi questi interessi sul proscenio dell'unione europea, dove si tramutano in azioni stimolanti ovvero vincolanti.

E' quindi utopistico interrogarsi/pensare/sperare – come da molti vedo fare, quasi con affannoso pathos e non so quanta autentica attesa – in un mutamento dell'attuale politica monetaria/finanziaria/monetaria interna della Germania, come pure del suo atteggiamento in sede europea: nulla cambierà, almeno finchè rimarranno in vigore le attuali regole (e non solo a livello europeo) e le debolezze altrui - finchè costituiranno un limite per gli altri ed uno stimolo per se stessi – non potranno essere fatte proprie.

D'altronde, chi potrebbe rischiare a cuor leggero di mettere a rischio il proprio livello di benessere, con il rischio che aiuti e buoni propositi all'effetto pratico non aiutino gli altri a salire bensì chi sta su a scendere.

D'altronde, parlare di “aiutare” e “contribuire nell'aiutare” è un fatto normale, in quanto si aiuta o per “non fare peggiorare” un contesto o per “aiutarlo a migliorare, a crescere”.

Ma se il contesto che si dovrebbe aiutare tende o a mantenersi su una posizione passiva/iporeattiva/depressa sotto il profilo sociale/politico/imprenditoriale, senza dare segni tangibili, anzi più che tangibili di una fiera volontà di ripresa, con concrete testimonianze di ciò, l'interrogativo che ci si può porre è il seguente: perchè aiutare un soggetto che è moribondo, o che sta morendo o che non fa nulla per guarire?

In questi interrogativi sta anche la chiave dell'odierna situazione italiana: il vecchio detto “aiutati che Dio ti aiuta” è sempre valido.

E non sembra che, almeno per quella che è la percezione che se ne può avere dagli accadimenti, che “ci si aiuti molto”, ovverosia che i comportamenti/gli atteggiamenti/le iniziative/i coup-de théatre (mi scuso per l'assenza dell'accento circonflesso) italiani (e parlo, ovviamente, di quelli visibili; ossia, sotto gli occhi di tutti: italiani e non) siano complessivamente coerenti con le necessità espresse quotidianamente dalle condizioni del Popolo.

Urgono come non mai (e la depauperazione del territorio da parte di aziende che delocalizzano o le continue acquisizioni da parte di mani straniere di aziende e marchi italiani, ne sono una prova) misure strutturali rilevanti, tali – queste sì - da attirare capitali e investimenti anche dall'estero e corredate da riforme “logiche, praticabili, di lungo respiro” e da innovazioni persino nel modo di ragionare/valutare/esprimersi/rapportarsi di una classe politica che, complessivamente, vive una propria realtà del tutto distante dal vivere quotidiano della gente. Una profonda volontà di modifica espressa a livello nazionale, non può che attrarre larghissimi consensi da parte di una popolazione in difficoltà, spesso stremata, incerta, smarrita in assenza di prospettive degne di tale nome e quindi desiderosa di affidarsi non dico ad “uno e un solo” nocchiero, bensì ad un “equipaggio” in grado di condurre una nave che, salvo miei errori di interpretazione/valutazione, appare poco governabile e in balia di fortissime perturbazioni.

Tutto ciò che sta avvenendo, si consuma in un contesto, quello odierno, dove i dati indicano che le economie di Cina e Stati Uniti sono pericolosamente prossime alla stagnazione.

E questo nonostante che il Tesoro USA e la Federal Reserve immettano continua liquidità nel sistema, e che il colosso Cinese stimoli in modo imponente le attività produttive, delle costruzioni e delle grandi opere.

Segno ancora più evidente che la crisi è pressochè totale, salvo palpiti di vita ora maggiori ora minori.

Segno, altresì, che i rimedi che i (pochissimi) potenti del mondo economico-finanziario ostacolano in nome di avidità e profitto “ad ogni costo” non possono più tardare ad essere applicati: il rischio pratico è che il corto-circuito in essere, possa tramutarsi in buio totale.

Anche la crisi che ha visto confrontarsi il gotha delle Nazioni di fronte alle tematiche in terra di Siria, ha posto in evidenza che – al di là di prese di posizione e dell'esibizione di “muscoli” e aitanza militare – il Mondo è in realtà diviso tra quanti hanno timori fortissimi nell'apertura di nuovi scacchieri di guerra: specie se ciò potrebbe equivalere al rischio di scoperchiare il “vaso di Pandora”. E anche tra quanti sono favorevoli, in realtà – fatto salvo il ruolo che giocano alleanze e trattati – i distinguo non sono pochi, poiché sono più i timori che non la concreta attesa di benefici: anche a livello “umanitario”, per popolazioni che - nell'iter certamente non breve verso “liberazione, pace e democrazia” - pagherebbero un prezzo comunque ancora più alto.

Ai ruggiti anglo-francesi (questi ultimi provengono da una Nazione in crisi, che riesce a tenere alta la testa perché non è stata ancora attaccata – come è avvenuto per Grecia, Spagna e Italia – dalla più feroce speculazione: poche mosse, pochi giorni e una Nazione è in ginocchio, a colpi di spread e di rating sprezzanti e deprezzanti il reale valore di popoli, economie, nazioni).

Il gioco della cannibalizzazione in Europa si è svolto proprio così: belle parole di solidarietà spese per chi è in difficoltà, ma bocche spaventosamente irte di denti che si spalancano per fare un solo boccone della vittima di turno, spogliata di ogni vitale autonomia, preda di importanti condizionamenti, depredata dei propri beni maggiori e appiattita nella sua smarrita sovranità.

Condizionamenti tali da sviluppare feroci lotte per il potere, all'interno, mentre ai ruggiti che si odono non corrispondono azioni all'esterno degne di tale nome.

Nazioni che erano protagoniste sono diventate – nel migliore dei casi – co-protagoniste, mentre in molte sono diventate mere comparse.

Anche se le verità si sussurrano, ma non si dicono, la realtà e sotto gli occhi di tutti: perchè se è vero che certi politici/politologi/politicanti tentano di distoglire, di mentire, di far vedere cose diverse, di turare naso e orecchi, di rendere la bocca atona, gli occhi sono ancora vigili.

E vedono un'Europa – ma non solo – preda di un neo-postcapitalismo peggiore dei capitalismi e una cinica voglia di sopraffazione, degna di un neo-neocolonialismo all'insegna del cannibalismo più sfrenato (ma intelligente, in doppio petto).

Perchè chi dovrebbe, non ci avvisa di come stiano veramente le cose?

Perchè non si assumono misure per fronteggiare ciò?

Perchè si tarda ad assumere urgentissime iniziative strutturali, cincischiando in cose che – in realtà - non hanno bisogno di cerotti o blande e temporanee panacee bensì di impietose cure chirurgiche, di salvifiche amputazioni?

Quando si smetterà di sostenere una fabbrica di stuzzicadenti in crisi perchè non si consuma più tale prodotto, varando misure di defiscalizzazione o altro, finanziando ristrutturazioni, elargendo aiuti per sostenere i lavoratori in difficoltà )che “devono” continuare a produrre stuzzicadenti; ad ogni costo), nella consapevolezza che gli stuzzicadenti prodotti non saranno venduti perchè la domanda – quantomeno per quell'azienda e per quel tipo di prodotto – è inesistente o inconsistente?

Così che la fabbrica che non chiude oggi, chiuderà domani: con ulteriori risorse male indirizzate e male adoperate, sprecate.

Ora dico, io non sono nessuno ed esprimo qui solo quello che in moltissimi esprimono. Ma possibile che queste sensazioni – che paiono presenti in modo concreto e ampio sul territorio – non giungano a chi di dovere?

Domanda forse retorica, ma che è bene porre. Anche se a livello delle più alte Istituzioni dello Stato c'è senz'altro chi se ne occupa e si preoccupa.

Occorre fare chiarezza, dunque, senza che ci si prenda in giro e senza che nessuno sia tentato di farlo.

Perché – come esempio, uno tra tutti - non si evidenzia/studia un dato: ci dicono che in Italia sono stati persi ca. 1.000.000 di posti di lavoro; ma ci dicono anche che aziende italiane trasferitesi all'estero o delocalizzatesi hanno creato lo stesso numero, ossia ca. 1.000.000, di nuovi posti di lavoro.

Allora? Vorrei che se ne parlasse e che qualcuno mi fornisse lumi, anziché ascoltare vaneggiamenti e vagheggiamenti socio/politico/idealistici su questo o quel tema, del tutto ininfluente sulla vita dei cittadini, sulla qualità della loro esistenza, sulle loro aspettative di vita, sulle attese delle generazioni più giovani.

Perché ci si affanna tanto a parlare (ancora!) di "integrazione" quando questo concetto-utopia è naufragato, e da tempo, in tutte le Nazioni che vi avevano investito? Si prenda atto che esiste un concetto - sul quale sono basati gli interventi politico/amministrativo/finanziari improntati sulle "società multietniche"; preso atto, peraltro, che i primi a non integrarsi ovvero a volersi integrare (al di là di frasi fatte e di paroloni/concetti, dove la magica parola "integrazione" è posta come una ciliegina su torte variamente composite e scarsamente commestibili, quando non indigeribili) sono proprio gli stranieri ai quali apriamo le porte (meglio: lasciamo spalancate le porte, per entrare) rendendo disponibili nostre risorse importanti.  Anzi preziosissime, in questo momento così grave dove di risorse per gli italiani - meno abbienti (eufemismo per definire i 5 milioni che vivono al di sotto della soglia di povertà, e senza contare le altre decine di milioni che vivono nel limbo compreso tra povertà e scarse risorse) non ce ne sono.

Questo punto, poi, ci porta a considerazioni - le più varie e importanti - sul tema della "sicurezza nazionale" di cui il concetto di "terrorismo" fa comunque parte: chi è questa gente che arriva? Chi sono e perché moltissimi non si lasciano identificare (sempreché l'identificazione possa essere poi certa e attendibile)? Dove vanno o come si immettono nelle maglie del nostro territorio? Domande pressanti che si fa ormai da tempo la gente, intimorita da situazioni di cui viene sempre e solo dipinto il "lato umano" e "commovente", ormai a stretto contatto con una realtà quotidiana che ci mette in rapporto con gente che, francamente, chiamare "importante risorsa" è molto arduo, anzi improponibile: per uno che lo possa realmente essere, e tanto di cappello per lui, non so quanti (e molti) non lo è. Lo testimoniano i fatti di droga, prostituzione, micro e macro criminalità, truffe, furti; senza sfiorare la drammatica nebulosa di traffico di esseri umani, induzione in schiavitù, traffico di organi e di neonati.
E queste sarebbero le "importanti, preziose risorse" cui sono state aperte le porte delle nostre Città?

C'è qualcuno che possa dirci su quali risorse possiamo contare - oltreché le "solite" tasse, o le "tasse sulle tasse"  - per far ripartire l'Italia, e da chi/cosa provengano? E quanto ci costeranno, in termini di interessi? Non sarebbe meglio che il "debito sovrano" (vedasi quanto avvenuto in Giappone) fosse in mano agli Italiani e che gli interessi (buoni) li prendessero loro?
O, alfine, qualcuno ci dirà che "soldi freschi", denaro vero, non ce n'è e non ce ne viene dato da quell'Europa che sta ad osservare noi che boccheggiamo ma che ci ostiniamo a non morire, con lo stesso atteggiamento del sadico che guarda il pesce rosso dibattersi nella boccia ormai con poca acqua?

Possibile che quello che si ascolta per le strade, nei mercati, nei bar, alle fermate degli autobus, nei luoghi dove in genere si ritrovano più persone, non giunga alle orecchie di chi vive e ci propina tutt'altra realtà?    Basterebbe poco - con praticità e in economia, senza bisogno di affidare costosi sondaggi a costose società di servizi - per "toccare con mano" queste realtà e prendere dolorosamente atto che il divario tra "Italia reale" e "mondo politico" è ormai diventato un abisso?

Ma la Spagna, che stava molto peggio di noi e le cui banche erano in default, come ha fatto a rialzarsi e ad invertire la rotta negativa, iniziando a recuperare quota e quindi stabilità?  Ha utilizzato alchimie straordinarie e segrete? Ha adoperato "parole e pozioni magiche"? I mezzi a cui gli spagnoli possono attingere sono gli stessi che abbiamo a disposizione anche noi: allora? Credo che la differenza sta nella visione e nella considerazione che i politici spagnoli hanno degli interessi del popolo (anche lì straordinariamente provato, forse più che noi italiani) e della necessità di mettere da parte divisioni e particolarismi in nome di un senso unitario e di una identità nazionale molto forti.   Ecco la ricetta spagnola, quindi: un po' di intelligenza, la consapevolezza che in un paese "morto" sarebbero "morti" la classe politica, i sindacati e i partiti, una presa di coscienza da parte dei governanti, privilegio dell'interesse nazionale, intrapresa di importanti misure strutturali unite a riforme e revisioni delle discipline interne fin qui in atto.  Tutto ciò ha fatto rapidamente la differenza. Ma ha anche avuto il suo peso, in Europa, a Bruxelles e Strasburgo, la consapevolezza che se la Spagna - più che l'Italia - fosse realmente uscita dall'Unione Europea, "qualcosa" sarebbe cambiato: innescando una reazione incontrollabile che avrebbe messo a repentaglio il consolidamento delle posizioni dei paesi in migliori condizioni.  Allora, aiutare la Spagna, ha avuto importanza maggiore che non altre decisioni e scelte.    Senza clamori ma con grande concretezza.

Da noi, invece? Mah! A Roma gira la battuta dialettale, che invece della spending-review ci troviamo di fronte alla spending-deppiù : e la vox populi è anche in questo caso fondata. In assenza di qualcuno (anche in sede di pluralismo) che dica "fino a ieri si è fatto così, da oggi - per il bene del Paese e dei Cittadini - si deve fare così", la parola d'ordine dovrebbe essere "tagliare" spese superflue o inutili, eliminando doppioni, consulenze, trasferte, sovrastrutture inutili e - soprattutto - costose.   Sembra che alle parole, non seguano i fatti: o almeno non seguono con quella concretezza che tutti vorremmo ascoltare e "toccare con mano".  Tagliare, ridurre, eliminare... Queste le parole d'ordine!

Parlavo, poco sopra, di assenza di clamori, già!

L'opposto di quanto avviene in Italia dove sono in atto laceranti contrasti tra forze (o debolezze) politiche, tra soggetti anche di portanza istituzionale, dove ogni giorno si fa il tiro al piccione con qualcuno che possa balzare troppo in evidenza.   Siamo lacerati tra parti che ormai si scontrano minacciosamente quotidianamente e più volte al giorno, al limite dello scontro fisico oltreché verbale, con linguaggio becero e spesso volgare, in una babele di idee e contro-idee, iniziative auspicate/auspicabili che naufragano o perdono di efficacia in breve tempo, di allarmismi, di serie prese di posizione in contesti poco "seriosi", di... Di tutto e di più in un caos montante che trova l'innesco (dichiarato) nel casus belli che  si incentra sul personaggio che da vent'anni unisce/disunisce/allarma/fa sperare l'Italia.     In ogni caso, il tutto si svolge sì nel caos apparente, ma un caos scandito da una sua propria liturgia, da una metodica antica (vecchia) che sopravvive però al passare degli anni, contraddistinta e sostenute da mantra ideologici il cui suono è ormai simile a quello di una campana spaccata.
 
Pensate ancora che di fronte alle indifferibili e tragiche urgenze del Paese, ci si possa perdere (e si possa dedicare spazio) davanti alle protesta di questa o quella parte, alle pretese di questo o quel gruppetto?  C'è un'Italia perennemente mobilitata e mobilitabile, ora per questa ora per quella causa: giusta o meno che possa essere.   Ma non sarebbe ora di rivedere e riformare il tutto?

C'era la guerra, e si decretò il blocco degli sfratti; c'era il dopoguerra, e si prorogò il  blocco degli sfratti; c'era il primo e poi ci fu il secondo dopoguerra, e si prorogarono gli sfratti; sono trascorsi 70 anni dal 1943 e ancora si prorogano gli sfratti... 

Vogliamo prendere finalmente atto che forse, dico forse, c'è qualcosa che non va?  Che si sono favoriti interessi macroscopici e particolari? Che a pagare gli errori altrui è stato quel "ceto medio" praticamente scomparso, quella piccola e media industria sull'orlo del tracollo?  Scomparsi per una costante opera di "livellamento verso il basso", spianato dall'applicazione di teorie dove si sosteneva il benessere diffuso e la quasi punizione dei "ricchi".   

E c'è chi sostiene ancora l'utopia dello "stato sociale" di quello stato-mammella cui tutti possono suggere; ma chi produce ormai questo "latte"? Le mammelle sono avvizzite e l'erba scarseggia, anzi la terra è quasi tutta arsa.    La stessa Svezia, madre in Europa (seppur nella sua efficiente realtà), lo ha abbandonato, e nei mondi (ancora) a matrice socialista il concetto di "stato sociale" equivale a quello di "povertà

Ma per favorire chi?
                     
(fine della II° parte)                                              Giuseppe Bellantonio

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lunedì 2 settembre 2013

UN NUOVO INTERVENTO DEL PROF. SFRECOLA SUL 25 LUGLIO

 Ai Lettori del mio blog.
Ho avuto il piacere di leggere - e segnalare - il precedente articolo a firma dell'Ill. Prof. Salvatore Sfrecola, apparso su www.unsognoitaliano.it , e relativo alla fatidica data del 25 Luglio.
A quel primo articolo, l'Illustre Autore, con quello scrupolo che é congeniale  a chi al proprio estro coniuga la ricerca, ha aggiunto un interessante capitolo.
Per le chiavi di lettura offerte al Lettore e per il rigore dei fatti riportati, mi sono permesso di chiedere nuovamente all'Autore di poterne trarre copia, mettendone così a conoscenza un novero ancora maggiore di Lettori.
Sono certo che lo leggerete con attenzione, godendone dei nuovi e inconsueti spunti.
Graie e buona lettura!
 
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Sempre a proposito del 25 luglio 1943

La “congiura” del Quirinale

di Salvatore Sfrecola

 

È giunto nelle librerie da pochi giorni, con la prefazione di Francesco Perfetti, un prezioso volumetto, in tutto 80 pagine, “La congiura del Quirinale” di Enzo Storoni (Il salotto di Clio, Le Lettere, Firenze, € 10) che offre un interessante spaccato degli avvenimenti che precedettero la riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio, la successiva uscita di scena, il 25, di Benito Mussolini e la fine del Regime. Il titolo richiama quello di un articolo che Storoni aveva pubblicato il 7 maggio 1949 su Il Mondo di Mario Pannunzio, ma il pezzo forte del volume sta nel Memoriale, inedito, scritto fra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’ingresso a Roma degli alleati il 4 giugno 1944.

Per Storoni si può affermare “senza tema di smentite che artefice unica del colpo di stato sia stata la monarchia”. Anche se non mancano, prova dell’onestà intellettuale dell’uomo, pur fedelissimo al Re, critiche a Vittorio Emanuele III per il pregresso suo atteggiamento nei confronti del fascismo e riserve sulla conduzione di quello che ormai è assodato sia stato un complotto della Corona nei confronti del Duce.

Storoni, avvocato, poi deputato liberale, per entrambi i profili “figlio d’arte” (il padre Emilio era stato un brillante civilista), futuro sottosegretario, aveva conosciuto per motivi professionali il duca Pietro d’Acquarone e ne era divenuto legale di fiducia, ciò che gli avrebbe consentito di entrare in confidenza con lui e di affrontare temi politici quando d’Acquarone divenne Ministro della Real Casa. Ex ufficiale di cavalleria, brillante personalità legata alla Corte, d’Acquarone si apre a Storoni che gli manifesta le aspettative degli intellettuali antifascisti, in particolare di Alessandro Casati e Ivanoe Bonomi, già presidente del Consiglio, che il duca riceve e fa ricevere dal Re.

Non è facile. Nel clima di sospetto ingenerato dalla dittatura e dai controlli diffusi posti in essere dal regime, d’Acquarone prima stenta a comprendere come possano gli antifascisti dirsi certi di un sentire antiregime degli italiani che numerosissimi si erano accalcati sotto il balcone di Palazzo Venezia all’indomani della caduta di Tunisi.

Storoni convince d’Acquarone che quella folla non esprimeva vero consenso nei confronti del regime, che Mussolini ormai aveva perduto “la sensibilità dello stato d’animo della masse”. Aggiungendo che “forse era il suo decadimento fisico e spirituale che lo portava, nel momento più difficile della vita, a circondarsi di persone sempre meno degne che spingevano l’adulazione ai limiti del grottesco: sempre più isolato, sentiva vagamente l’ostilità montante dell’intero paese, l’opposizione crescente in seno allo stesso partito; per evitare di udire e di vedere, si faceva schermo di una cerchia ristretta di cortigiani”.

Sono gli argomenti di Dino Grandi nella requisitoria a sostegno del suo ordine dei giorno il 24 a Palazzo Venezia.

Per Storoni la monarchia costituisce l’“unico potere in grado di agire legalmente, fornito di indiscutibile ascendente sull’esercito, per ottenere l’abolizione del fascismo e la costituzione di un governo antifascista, che ripudiasse senz’altro la guerra di partito in cui l’Italia era stata trascinata”. D’altra parte al Re giungevano giornalmente migliaia di lettere che davano conto del diffuso malcontento nei confronti del regime.

Con il duca d’Acquarone, dunque, “l’unico intermediario tra la corona e il mondo esterno”, Storoni avvia un dialogo che sorregge con promemoria vari destinati al Re per formulare ipotesi sulla uscita di scena di Mussolini. Osserva l’A. come sarebbe stato difficile, senza il sostegno del Re, che “uomini, i quali per tanti anni avevano prostituito la loro coscienza in una serie di acquiescenze, connivenze, equilibrismi, malversazioni, adulazioni, una volta giunti all’apice della ricchezza e degli onori, abbiano ritrovato quel senso del dovere civico che non avevano mai dimostrato di possedere”. Giudizio duro certamente riferibile alla maggioranza dei componenti del Gran Consiglio non a quanti avevano nel tempo messo in guardia il Duce sull’errore dell’alleanza con il tedesco. Come Grandi, De Marsico, De Stefani, Federzoni. Lo stesso Ciano aveva manifestato in più occasioni preoccupazioni per una alleanza storicamente innaturale, a fronte della ”tradizionale amicizia” verso l’Inghilterra.

Storoni qualifica “colpo di stato” la sostituzione di Mussolini alla guida del governo, come altri giuristi hanno sostenuto. Ma non ne spiega le ragioni sul piano costituzionale un po’ contraddicendosi, avendo attribuito alla votazione del Gran Consiglio la caduta del regime, in quanto “costituzionalmente sanzionava l’allontanamento di Mussolini”. Il quale, in ogni caso, avrebbe presentato al Re le proprie dimissioni, nel corso dell’incontro con il Sovrano quel pomeriggio del 25 luglio a Villa Savoia.

Prezioso, dunque, il Memoriale di Storoni, un tassello fondamentale per la comprensione di un drammatico passaggio storico che avrebbe avuto un seguito ancora controverso l’8 settembre, alla comunicazione dell’armistizio, e successivamente con l’occupazione di gran parte dell’Italia da parte delle forze armate tedesche decise, su ordine di Hitler, a farla pagare ai “traditori” italiani. Un intento che costerà caro anche al Terzo Reich per aver distolto da altri fronti truppe eccellenti che avrebbero potuto essere meglio impiegate altrove.

Il dopo 8 settembre, dunque, è ancora un tema da approfondire.

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