Per gentile disponibilità dell'Autore, pubblichiamo un articolo incentrato su un evento dagli aspetti definiti 'sconcertanti': la rimozione dei resti mortali del Generale Francisco Franco dalla sepoltura ove giaceva da circa cinquantanni.
L'Autore, con capacità, scrupolo e attenzione storica, fa un'analisi che - direttamente o indirettamente - coinvolge il contesto storico, politico e sociale attuale.
Buona lettura!
Roma, 3 Novembre 2019
G. Bellantonio
--------------------------------------
Un Due Novembre sconcertante
RIMOZIONE DI FRANCO: DAL SEPOLCRO O DALLA STORIA?
PARCE SEPULTO
di Aldo A. Mola
L'unico “successo” del
socialista Sánchez: la rimozione di Franco
Francisco Franco y Bahamonde
conterà meno dopo la deportazione della sua salma dal Valle de los Caídos, dopo
quasi mezzo secolo di eterno riposo, e l'inumazione nella cappella del cimitero
del Pardo a Mingorrubio, accanto alla moglie Carmen Polo? Varrebbe di più se
fosse stato traslato nella cattedrale de la Almudena, nel cuore di Madrid, come
chiesero i suoi famigliari? Ovunque siano le sue spoglie mortali, “Generalísimo
de los Ejércitos” nazionalisti insorti il 18 luglio 1936 contro il governo
repubblicano, “Caudillo de España” e “Jefe del Estado”, comunque Franco è
entrato nella storia e rimane memorabile, come tutti i personaggi che hanno
segnato un'epoca. Piaccia o meno, egli è stato tra i protagonisti della storia
della Spagna dalla lunga guerra civile (1931-1939), nella seconda guerra
mondiale (1939-1945: si conta non solo quando si fa la guerra, ma anche quando
se ne sa star fuori) e dell'Europa nei decenni successivi, sino alle soglie
dell'ingresso nell'“Europa dei diciotto”. Lo storico non giudica: documenta i
fatti e lascia a ciascuno di valutare. Mentre imperversa la pretesa di
pronunciare condanne “morali” del passato, lo storico cerca di capire perché e
come siano accaduti i “fatti”. Tutti. Non parteggia. Contempla. Sunt lacrimae
rerum... Altre seguiranno.
L'attuale presidente del
Consiglio spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, molto appagato
dell'esteriorità, ha orchestrato l'esumazione delle spoglie di Franco per
alimentare uno psicodramma nazionale alla vigilia delle imminenti elezioni del
10 novembre. A conti fatti, l'evento ha suscitato più curiosità che appassionamento.
Confidando in manifestazioni che giustificassero chissà quali misure
eccezionali, qualcuno si attendeva dimostrazioni di nostalgici e di
antifranchisti, rigurgiti di arcaici conflitti. Invece, i cronisti, sempre
pronti a planare come corvi sui “grandi scontri di piazza”, risultarono più
numerosi dei presenti e in specie dei 22 nipoti e pronipoti dell'estinto,
avvolto nella “sua” bandiera e confortato dalla messa funebre celebrata da
padre Ramon Tejero, figlio del colonnello Antonio, autore del fantasioso
“golpe” che ormai si perde nella notte dei secoli e rincalzò il trono di Juan
Carlos I. La Spagna di Felipe VI è così democratica che da anni ha un governo
tanto minoritario quanto inconcludente.
L'espunzione di Franco dal
Valle era una antica pretesa dei socialisti (Rubalcaba, poi Zapatero) e fatta
propria da Sánchez perché il Caudillo non è un “caído”, non morì nella tragica
guerra civile tra i due “bandos”, i repubblicani e i nazionalisti, i rossi e
gli azzurri. Morì di morte naturale, persino “ritardata” per dare tempo
all'assestamento della macchina statuale in un paese ormai “normale”. Non solo,
secondo alcuni antifranchisti il suo nome suscita ancora nostalgia del regime
dittatoriale, tanto da rendere sospetto l'afflusso dei visitatori al monumentale
complesso funebre al cui centro sino al 24 ottobre 2019 la sua lapide tombale
recava scritto semplicemente “Francisco Franco”, come si conviene a chi ha
fatto la storia e lascia ai posteri l'ardua sentenza sulla sua opera.
Sánchez potrà ora dire di avercela
fatta. Capo di un governo di minoranza, costretto a tornare a terze elezioni
senza aver risolto nessuno dei problemi che assillano il Paese, dalla Catalogna
alla “Spagna profonda” dal cui humus escono i consensi per “Vox”, il partito
neo-nazionalista con profonde radici nel franchismo o più correttamente nella
storia millenaria del Paese iberico, con residuo senso dell'opportunità Sánchez
prova qualche imbarazzo a sventolare la traslazione del feretro del Caudillo
come successo storico. È un “successo” solo nel significato spagnolo del
termine: un accadimento, non un trionfo. Sarà giustizia? Sarà saggezza? Di
sicuro, esso è divisivo. È un tardivo “regolamento dei conti” all'interno di un
Paese che da decenni ha metabolizzato la guerra civile, ha faticosamente messo
alle spalle persino i delitti perpetrati dagli “etarras” e oggi deve fare i
conti con l'altra artificiosa piaga: il fanatismo indipendentistico di una metà
degli abitanti della Catalogna in libera uscita dalla storia: un separatismo
che non ha motivi etnici, religiosi, civili ma solo linguistici in un Paese,
come la Spagna, che riconosce le più ampie garanzie al bilinguismo (catalano e
gallego, a tacere ovviamente del basco) e alle “nuances” del catalano, come il
valenciano (del quale nessuno sente vera necessità).
Il ruolo attuale della
Spagna per l'Europa nel mondo
In pochi giorni dalla macabra
sceneggiata, la deportazione della salma di Franco è uscita dalle prime pagine
dei quotidiani. Los Reyes partono da Madrid alla volta di Cuba, un viaggio di
Stato voluto dal governo, non senza imbarazzo per chi osservi che il regime
castrista sta tornando rapidamente all'indietro, verso la repressione delle
opposizioni e delle poche ventilate aperture all'Occidente, mentre l'intera America
latina è sconvolta da insorgenze e conflitti, tensioni crescenti fra i
discendenti dei nativi sopravvissuti alla tabula rasa perpetrata dai
conquistatori, creoli e discendenti delle ondate migratorie
dell'Otto-Novecento. Il “caso” del Messico è il più emblematico: civilissimo in
circoscritte plaghe, del tutto succubo della produzione e spaccio di droghe in
vaste zone, e sempre più indotto a forzare il limes con gli USA, i cui Stati
meridionali sono più ispanofoni che anglofoni. In quella vastissima area la
Spagna odierna, quella di Felipe VI e della dirigenza “di Stato” che ha alle spalle la Spagna “una, grande y
libre” della Transizione, svolge un ruolo di prim'ordine, di gran lunga
superiore ai timidi passi del governo italiano che per ministro degli Esteri ha
Luigi Di Maio. La Spagna è lì, oltre Atlantico, come anche nel mondo arabo, dal
Marocco all'Arabia Saudita, e non da oggi. In una famosa conferenza
pan-americana Juan Carlos di Borbone azzittì ruvidamente il petulante
presidente venezuelano Chávez, predecessore del nefasto Maduro: “Cállate”,
“Taci!”. Per queste ragioni gli italiani consapevoli della debolezza dal
proprio governo e attenti al ruolo planetario ancora possibile per il
protagonismo dell'Europa franco-germanica e anglo-iberica hanno motivo di
guardare al di là delle cronache del monocolore socialista ancora per qualche
giorno imperante a Madrid e di sentirsi rappresentati anche dagli eredi di
Carlo V e di Filippo II di Asburgo, come poi di Filippo V di Borbone e dei suoi
successori sino, appunto, a Filippo VI e alla Principessa delle Asturie,
Leonor.
Carriera e fortuna di un
generale prudente
Ma chi fu Francisco Franco,
le cui spoglie sono state al centro di una disputa ventennale? Non irruppe nel
suo paese come un meteorite da chissà quale cielo. Duramente sconfitta nel 1898
con la rivolta di Cuba e delle Filippine, alimentata dagli Stati Uniti
d'America che gliele sottrassero accampando di volerle liberare dal giogo
coloniale al quale sostituirono il proprio, la Spagna precipitò in crisi
d'identità. Ancora ottant'anni prima dominava un impero che andava dal Messico
alla Terra del fuoco. Malgrado statisti di valore, come Sagasta e Cánovas del
Castillo, era l'ombra di se stessa. Lo sintetizzò Ángel Ganivet, suicida nelle
acque della Dwina, in “Ideario spagnolo”. Mentre Francia, Gran Bretagna e
Germania espandevano i loro imperi coloniali e persino il neonato regno
d'Italia annetteva Eritrea (1890), Somalia (1907) e Libia (1912), la Spagna era
umiliata, “invertebrata”. Rimasta saggiamente estranea alla Grande Guerra,
superò meglio di altri paesi l'estremismo anarchico di primo Novecento -
culminato nella “settimana tragica” e nella fucilazione pedagogica del
pedagogista Francisco Ferrer y Guardia, come ha documentato Fernando García Sanz
in opere magistrali - e le procelle postbelliche.
Nato a El Ferrol (Galizia) il
4 dicembre 1922, secondo dei cinque figli di Nicolás Franco, ufficiale di
marina, e della piissima María del Pilar Bahamonde, dal padre (che più tardi,
si trasferì solingo a Madrid e, senza divorziare, si unì ad Agustina Aldana)
Francisco si sentì sempre posposto al primogenito Nicolás e al minore, Ramón,
massone, repubblicano, rivoluzionario, aviatore provetto, caduto in circostanze
tuttora arcane, mentre suo cugino primo, Ricardo de la Puente Bahamonde, nel
1936 venne fucilato tra gli ufficiali che rifiutarono di accodarsi a Francisco,
“generale ribelle”.
Formato nella Scuola militare
di Toledo, Franco si mise in luce nella guerra di conquista del Marocco e a
soli 33 anni venne nominato generale: il più giovane in Europa. Pietro Badoglio
lo divenne a 46 anni. Ugo Cavallero, a sua volta, raggiunse quel grado quando
ne aveva 39. Ma il grado non basta a comandare gli eventi. Occorre la fortuna.
Che spesso (contrariamente a quanto recita il motto famoso) non aiuta gli
audaci bensì i prudenti.
Nel 1934 Franco impiegò
sbrigative maniere per reprimere l'insorgenza operaia nelle Asturie. Tre anni
prima Alfonso XIII aveva lasciato la Spagna, che subito registrò un'onda di
anticlericalismo violento, con incendi di chiese e altri eccessi documentati da
Mario Arturo Iannaccone in “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna
fra seconda repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau). Nominato dal
governo di Madrid capo della Legione spagnola in Africa e comandante di tutte
le forze armate (gennaio-maggio 1935), Franco fu inizialmente riluttante ad
aderire al golpe progettato dal generale Emilio Mola y Vidal, laicista, niente
affatto massone, capo dei “requetés”, noto per doti di stratega e meticolosità.
“Jefe” dello Stato dell'alzamiento contro il governo di Madrid fu Jorge
Sanjurjo, morto per la caduta dell'areo che lo riportava dal Portogallo, ove
era esule dopo un fallito golpe. Dopo l'insurrezione, anche Mola morì in un incidente
aereo. Gli altri due generali, Queipo de Llano e Miguel Cabanellas Ferrer,
erano chiassosi ma politicamente irrilevanti.
Capo della Giunta di difesa
nazionale, Franco ebbe il sostegno delle Giunte dei “falangisti” capitanati da
José Antonio Primo de Rivera (un movimento nazionalista con venature
progressiste), dei “requetés” e di altre forze nettamente contrarie ai
sovversivi, nonché (importanti ma non decisivi) di Mussolini e di Hitler. Egli
inoltre contò soprattutto sull'appoggio fervido e pressoché unanime del clero
cattolico, interno e internazionale. Fallito (forse intenzionalmente )
l'assalto a Madrid (preferì la più spettacolare e propagandistica “liberazione”
di Toledo), Franco non ebbe fretta di vincere. Gli storici sono ancora
perplessi: incapacità strategica militare o strategia politica?
Col passare dei mesi e degli
anni in Spagna all'interno dei due fronti in lotta presero corpo due opposti
piani. A sinistra i comunisti, eterodiretti dall'URSS di Stalin, eliminarono
via via i “dissidenti”: borghesi, democratici, semplici repubblicani, anarchici
e massoni. A destra Franco fece altrettanto. Mentre (come tardivamente ha
ammesso lo storico britannico Paul Preston) nel 1936 vi erano tre Spagne
(rossi, reazionari e democratici), dal 1938 ne rimasero due sole: i rossi e i
nazionalisti. Franco operò una metodica eliminazione fisica degli oppositori
della Spagna che aveva in mente: cattolica, concentrata nel culto della propria
identità. Scomparve quella europeista vaticinata da Miguel de Unamuno, da
massoni, liberali, socialisti democratici. Sin dal 1938, molto prima che
entrasse in Madrid (1 aprile 1939) e vi celebrasse la vittoria, Franco fu
riconosciuto da Parigi e da Londra.
Al potere annientò quanto
rimaneva delle opposizioni con misure durissime. Con lo pseudonimo “J. Boor” scrisse articoli
fanaticamente antimassonici e nel 1940 pubblicò la legge per la repressione del
comunismo e della massoneria, studiata da Juan José Morales Ruiz, autore del
saggio esemplare “Palabras asesinas” (ed. Masonica.Es). Però rifiutò di entrare
in guerra a fianco di Hitler (che invano lo “tentò” in un lungo inutile
colloquio a Endaye) e di Mussolini (che incontrò a Bordighera) e, passo dopo
passo, si spostò tacitamente a fianco della Gran Bretagna.
Dieci anni dopo Franco aprì
la svolta: dal falangismo ai tecnocrati dell'Opus Dei. La Spagna lentamente si riprese. Sotto la cappa
dell'ipocrisia normativa i costumi dei
suoi abitanti erano quelli di sempre, come scoprivano i turisti: “los toros” e
“el baile toda la noche”. D'altra parte dal 1953 essa ebbe il placet del
presidente degli USA, Eisenhower, e nel 1955 entrò nelle Nazioni Unite. Seguì
un ventennio di progresso. Franco finse di non sapere che le basi militari
americane avevano anche logge massoniche e che molti uomini del regime, come il
suo conterraneo Fraga Iribarne, frequentavano all'estero ambienti “illuminati”.
Il “dopo Franco” fu opera sua
Alla morte, il 20 novembre
1975, la Spagna non aveva più nulla a che vedere con quella della guerra
civile. Erano anche cacciate nel passato remoto le pretese dei “carlisti” e di
altre frange. Sin dal 1969, dopo aver ipotizzato l'instaurazione di Ottone
d'Asburgo-Lorena per superare il conflitto tra le fazioni borboniche, Franco
proclamò re Juan Carlos di Borbone, anteponendolo al padre, Juan, conte di
Barcellona. Il 19 giugno 1974, gravemente malato, da Reggente l'antico Caudillo
gli conferì l'esercizio del potere, salvo riprenderlo appena ristabilito. Il
“tirocinio” dette prova positiva. La Spagna era pronta al cambio, malgrado
l'assassinio del presidente del governo, Luis Carrero Blanco, l'ETA e
l'ostilità di chi ne avversava l'ingresso in “Europa”, spacciando per difesa
della democrazia l'esclusione dei prodotti spagnoli ormai competitivi (e non
solo agrumi, olio, formaggi, salumi...).
Per questi motivi la
valutazione storica di Franco non si può ridurre alla sua azione di Caudillo
durante e subito dopo la guerra civile e prescinde comunque dall'ubicazione
delle sue spoglie. Vale altrettanto per Vittorio Emanuele III, re d'Italia per
mezzo secolo. Anziché disputare sulla tomba che 70 anni dopo la morte gli è
stata assicurata in uno degli 8.000 Comuni di cui fu sovrano, è meglio
studiarne l'opera e capirne la grandezza, la buona e la cattiva sorte, tutt'una
con quella d'Italia. Ma lo spirito di fazione e le conventicole spesso ancora
prevalgono, perché, ricorda Giovanni Evangelista, “gli uomini preferiscono le
tenebre alla luce”.
Parce sepultis: Franco e José Antonio Primo de Rivera
E ora? “Parce sepulto...”? Il
brocardo non significa affatto “perdona chi è morto”. Questa versione, benché
usuale, è errata e deviante rispetto a quanto volle dire Publio Virgilio
Marone. È una traduzione, più partenopea che italiana, riecheggiante il cinico
motto: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Scordiamoci il passato, non
pensiamoci più”. Certo, quando la scrisse nell'Eneide il sommo poeta latino
aveva alle spalle mezzo secolo di guerre civili, da Mario e Silla, a Cesare e
Pompeo, a Ottaviano e Antonio, e quindi esortava alla pace interna affinché
Roma potesse assolvere la sua missione: “rispettare” (parcere) gli assoggettati
e annientare (debellare) gli irriducibili. Però con la formula “parce sepulto”
non invitò affatto a “perdonare i morti” (non ne hanno più bisogno) né a…
dimenticarli (vanno invece ricordati, anche se le loro ceneri sono disperse e
magari gettate in mare).
“Parce sepulto” significa
“rispetta chi è sepolto”. Esprime appieno il pensiero del Virgilio da Dante
elevato a precursore del Cristianesimo, di una pietas che affonda radici
nell'omaggio ai defunti. Tutti. Anche gli avversari caduti in battaglia in nome
dell'onore alle armi. Rispettare il sepolto è quanto, a prescindere da ogni
giudizio di merito, non ha fatto Pedro Sánchez. E questo rimarrà a ricordo della
sua per ora modesta prova politica. Ma v'è di peggio. Ora vorrebbe spostare
anche la salma di José Antonio Primo de Rivera, capo della Falange, perché,
egli argomenta cavillosamente, non è un “caduto” nella guerra civile ma una
“vittima” della guerra civile. Non morì in combattimento. E' vero. In effetti
fu ammazzato brutalmente dai “rossi” il 20 novembre 1936 nella piccola cella
ove era detenuto ad Alicante. In quel carcere non venne dunque consumato uno
dei tanti delitti della guerra civile? E José Antonio non è dunque un caduto di
quel tragico conflitto? Adesso che gli han tolto il “vicin suo grande” il
pavimento de los Caidos è disarmonico? E così la sua salma va spostata per la
quinta o sesta volta?
La storia non è una
schermaglia linguistica. Gronda sangue. Non va neppure sottoposta a commissioni
parlamentari. Lasciamola agli studiosi e alla coscienza degli uomini liberi da
pregiudizi. Una valutazione sintetica di Franco fu anticipata da papa Pio XII
quando gli conferì l'Ordine supremo di Cristo (1953): un onore impegnativo sia
per chi lo decretò, sia per chi ne beneficiò. Un “successo” dal quale non può
prescindere il giudizio complessivo sul Caudillo e sulla sua epoca: in Spagna
camminò nel solco del “rey prudente”, Filippo II, quello della “limpieza de
sangre”. Se durò quarant'anni al potere vuol dire che non fece tutto da solo.
Ovunque giaccia la sua salma, va studiato. Al di là delle “emozioni”, è
Storia.
---------------------
Disclaimer / Avviso 1
Disclaimer / Avviso 2
Oltre ciò - specie per le parti informative a contenuto storico e/o divulgativo - i Lettori, ovvero quanti comunque interessati alla materia, che possano ritenere ciò utile e opportuno, potranno suggerire delle correzioni e/o far pervenire qualche proposta. Proposte che saremo lieti di valutare ed elaborare.
L'autore nonché titolare dei diritti e dei doveri relativi alla gestione di questo blog rende noto a tutti gli effetti di Legge quanto segue:
1) tutti i diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Ai sensi dell'art. 65 della Legge 22 Aprile 1941 n° 633, è vietata la riproduzione e/o diffusione totale o parziale - sotto qualsivoglia forma - senza che vengano citati il nome dell'autore e/o la fonte ancorché informatica.
2) E' vietato trarre copie e/o fotocopie degli articoli/interventi contenuti nel presente blog - con qualsiasi mezzo e anche parzialmente - anche per utilizzo strettamente personale/riservato.
Disclaimer / Avviso 2
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. L'autore non è responsabile per quanto pubblicato dai lettori nei commenti ad ogni post. I commenti ritenuti offensivi o lesivi dell’immagine o dell’onorabilità di terzi, di genere spam, razzisti o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla privacy, potranno essere rimossi senza che per ciò vi sia l'esigenza di prendere contatto anche preventivo con gli autori. Nel caso in cui in questo blog siano inseriti testi o immagini tratti dal web, ciò avviene considerandoli di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione fosse tutelata da possibili quanto eventuali diritti d'autore, gli interessati sono pregati di comunicarlo via e-mail al recapito bellantoniogius@gmail.com al fine di procedere alla opportune rettifiche previa verifica della richiesta stessa. L'autore del blog non è responsabile della gestione dei siti collegati tramite eventuali link né dei loro contenuti, entrambi suscettibili di variazioni nel tempo.
Nessun commento:
Posta un commento