L'articolo a firma di S.E. il Prof. Salvatore Sfrecola a margine della recente tornata elettorale, non ha bisogno di introduzione: tanto è di per sé ricco di sostanzialità, di spunti interessanti, di riflessioni e - per molti versi - di elementi ovvii. Palesi agli occhi di tutti, salvo di chi si ostini a non voler vedere...
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Referendum,
hanno vinto tutti, ha perso la democrazia
Com’è
consuetudine all’indomani di una consultazione elettorale tutti si proclamano
vincitori o, comunque, “non perdenti” assumendo che, in vario modo, l’esito
abbia dato ragione alla indicazione fornita al corpo elettorale. C’è, però un
sicuro perdente, la democrazia, sempre quando il risultato del voto è
determinato dall’astensione degli elettori. E perde la politica se
quell’astensione è stata effetto della insufficiente o distorta informazione
intorno al quesito e alle conseguenze che la sua approvazione o meno avrebbe
determinato.
Non
entro, dunque, nel merito del controverso quesito referendario, sul quale,
peraltro, si sono sentite non solamente tesi diverse, com’è normale che sia, ma
autentiche bugie, evidenti anche alle orecchie del più modesto degli
osservatori, purché desideroso di apprendere, ciò che dimostra come la
democrazia in questo nostro Paese sia ancora incompiuta. Come attesta la
polemica sull’astensione, certamente consentita sulla base della norma
costituzionale la quale (art. 75, comma 4) prevede che “la proposta soggetta a
referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli
aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”.
Escluse, dunque, le schede bianche o nulle. Questo limite fu oggetto di accesa
discussione in Assemblea Costituente. Fu proposto (Paolo Rossi) di elevare il
quorum ai due quinti. Poi passò la formula dell’on. Perassi. E fu la maggioranza
degli aventi diritto. La preoccupazione era quella di evitare che una legge,
magari approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento, potesse essere
abrogata anche solamente dal quindici per cento degli
elettori.
La
preoccupazione si comprende ma non convince. Il referendum è istituto
cosiddetto di democrazia diretta, attraverso il quale si intende
verificare la rispondenza della volontà degli eletti ai sentimenti degli
elettori. È espressione autentica di democrazia per cui il limite imposto dal
quorum a mio avviso non ha senso, in quanto, in vista del quesito, le
associazioni ed i comitati schierati sul si o sul no, i parlamentari ed i
partiti sarebbero costretti ad un impegno importante per sollecitare
l’elettorato a votare in favore delle rispettive posizioni. Fidare
sull’assenteismo, indotto da disinteresse per la partecipazione alle scelte
della comunità o, peggio, da insufficiente o distorta informazione non è degno
di una democrazia matura come noi crediamo sia quella italiana. O forse come
vorremmo che fosse.
Sulla
base di questo mio modo di intendere la partecipazione dei cittadini alle
decisioni dissento dalla tesi di Alessandro Campi, docente di Storia del
pensiero politico all’Università di Perugia, esposta oggi su Il
Messaggero, secondo la quale “in democrazia non votare è comunque un modo
per esprimere la propria opinione”. Ed aggiunge: “l’idea che solo recarsi alla
urne rappresenti una prova di maturità civile o un esercizio virtuoso di
cittadinanza nasconde un’idea pedagogica della politica e una visione della
democrazia che sacrifica la mobilitazione di massa alla libertà individuale”.
Dissento perché è difficile immaginare nella diserzione delle urne una scelta
politica rispetto ad una decisione legislativa, come in questo caso, od
all’indirizzo politico presentato dai partiti in una competizione elettorale. E,
poi, da quale partito, considerata la varietà delle proposte in campo sulle
politiche pubbliche, dovrebbe intendersi realizzato il dissenso del non
voto?
Neppure
l’ipotesi che il cittadino non vada a votare perché disgustato, come taluno
afferma non senza qualche fondatezza, dalla politica e dagli scandali che da
anni la caratterizzano, può identificare una “scelta” politica, sia pure
implicita in una “non scelta”.
Diamo
alle cose l’interpretazione più corretta o solamente più verosimile. Il popolo
italiano non è stato educato alla partecipazione elettorale. Non lo è stato nei
primi anni del Regno, quando votavano solamente i possidenti e coloro che
sapevano leggere e scrivere, non lo è stato ai tempi del Fascismo, quando la
“religione della libertà”, per dirla con Benedetto Croce, è stata
sistematicamente compressa. Non lo è stato neppure nei primi anni della
Repubblica nata sotto la minaccia del “caos” se non avesse prevalso sulla
Monarchia. Ha avuto una parvenza di dignità essenzialmente negli anni della
contrapposizione Democrazia Cristiana-Partito Comunista quando, come nel 1948,
fu netta la contrapposizione nelle piazze d’Italia tra libertà e comunismo
filosovietico, negatore dei diritti civili. Presto il compromesso storico e la
esaltazione della fine delle ideologie, hanno decretato, in realtà, la fine
delle idee che distinguevano destra e sinistra. Sicché, come ha scritto Galli
della Loggia sul Corriere della Sera di domenica 17, si è realizzata
quella “erosione di identità che omologa la politica” ed attua, attraverso la
fine dei partiti storici, il superamento del confronto, per cui il cittadino non
è stimolato a riflettere, anche nel modo più semplice o semplicistico, per
identificare il partito o l’uomo politico del quale condividere e sostenere i
programmi. In tutto questo non ha aiutato una legge elettorale che fa del
Parlamento un’assemblea di nominati dai partiti e non di soggetti eletti dai
cittadini perché radicati sul territorio. Anzi, si è fatto di tutto per
allontanare gli eletti dagli elettori trasferendo i candidati da una regione
all’altra, spesso a distanza di molte centinaia di chilometri. In queste
condizioni appare estremamente arduo considerare il non voto una scelta
“politica”.
18
aprile 2016 Salvatore Sfrecola
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