Come
titolano i tg – sono da poco passate le 20,oo del 22 Settembre,
allorché ho iniziato questo articolo - “Il trionfo di Angela” é
il titolo che domina le notizie, riferendosi ai risultati della
tornata elettorale in Germania e al lusinghiero risultato ottenuto
dal premier Angela Merkel.
Un
dato scontato, per chi di politica ne sa, una lezione per i
politicanti di scarsa preparazione che calcano (e purtroppo dominano)
l'italico proscenio.
Il
dato scontato è basato sulla ovvia constatazione che un Paese che
marcia molto bene rispetto a molte altre Nazioni europee (senza
andare al di fuori della UE), non cambia gestione
amministrativo-politica solo per “cambiare” o “per dare una
lezione” a qualcun altro: non ci si taglia le tonsille per fare
dispetto a mogli nervose o ad altro.
Una
Nazione abituata a pianificare e ad operare sulla base di una
progetto comunque comune (ossia a favore del popolo, del Paese) e di
un programma per realizzarlo, con la concreta proiezione di poterlo
proseguire (salvo aggiustamenti che non potranno che potenziare
l'apparato statale e le risposte che questo sarà in grado di
offrire), non può che fare scelte coerenti ed affatto umorali.
Potrà
poi piacere o non piacere, ma è comunque un esempio di coerenza
dell'elettorato tedesco (e quindi, del popolo tedesco) che non è
affatto disposti a fare salti nel buio: anzi, è pronto a
rafforzarsi, lavorando ancor di più e consolidando sul piano
internazionale non tanto l'immagine di una Nazione super-efficiente
quanto tutto l'efficacia di una presenza commerciale che si è
ampliata in misura notevole, andando anche a colmare la presenza di
aziende di altre Nazioni strangolate da debiti ingenti, da una
anacronistica visione del rapporto di lavoro, da una pressione
fiscale praticamente insostenibile, da una perdurante assenza di
programmi strutturali da porre immediatamente in essere.
Ecco
perchè le elezioni tedesche sono anche una lezione per “allievi”
e “osservatori” che di politica (ricordiamo la base lessicale
della parola, polis,
ossia “città” - riferito al periodo in cui vi erano città-stato
- : in modo estensivo, tutto ciò che riguarda la città e chi la
abita, ossia i cittadini) poco ne sanno, ancor meno ne hanno studiato
ovvero avuto una qualche rudimento preliminare, e poco o niente hanno
a cuore REALMENTE gli interessi dei cittadini.
Così
che il tutto ci riconduce, inevitabilmente, all'abisso che ormai
separa il mondo della politica , dei politologi e dei politicanti
dalla vita reale: né più né meno quello che accadeva in un qualche
staterello più o meno grande allorchè le truppe erano falcidiate al
fronte, in preda a ordini contraddittori e fantasiosi, mentre nella
capitale generali e politici discettavano di strategie e tattiche in
comodi salotti dove non si facevano mancare prelibatezze e cibarìe
varie, oltre che la delicata compagnia di altrettanto delicate dame.
E
se per caso c'era qualcuno, tra costoro, che volesse impegnarsi di
più, era un qualcuno che tentava di giocare su più tavoli,
negoziando la sua sopravvivenza futura (politica o militare, in
questo caso) nel caso in cui a vincere (o a “sopravvivere” alla
sconfitta) fossero stati gli “altri”.
Ma
le truppe? Continuavano a morire.
Ma
non c'era nessuno che se ne preoccupasse?
Tutti,
a parole.
Nessuno,
nella pratica.
La
Germania, al pari dei Paesi dell'Area Nord, solo con un occhio (un
po' miope, se vogliamo) sta al presente; con l'altro occhio (più
efficace, nell'acutezza della visione) guarda al futuro, preparandosi
al meglio a prevenire ovvero fronteggiare una possibile (anche se
poco probabile, almeno paragonato a ciò che gli altri hanno patito,
patiscono e patiranno) crisi del loro Paese.
Crisi
intesa nel senso più “morbido” del termine, in questo caso.
Anche
perchè se e quando loro dovessero correre il rischio della crisi,
gli altri staranno molto peggio; ovverosia, anche se ci fosse crisi
“staremo meglio/meno peggio di altri”.
Non
dimentichiamo che in Germania il raffronto di alcuni dati
riconducibili al benessere economico-finanziario (dati 2010, 2011,
2012) sono a mio avviso indicativi di difficoltà tendenzialmente non
lontane come si vorrebbe far credere: un PIL che dal +4,2% del 2010 è
passato al +3% del 2011, per fermarsi ad un tiepido +0,7% del 2012;
un rilevante calo nei consumi; una soglia di “recessione tecnica”
ormai visibilmente prossima , anche se non raggiunta.
La
locomotiva si sta fermando? Certamente ha rallentato molto.
Ma
la cosa che tutti sanno e che pochi dicono é che la Germania fa in
primis i propri
interessi nazionali (mi spiego: cura, salvaguarda, tutela anche in
chiave futura il benessere dei propri cittadini, delle proprie
aziende e di chi vi lavora, dei propri investimenti – come nazione
– e di quelli delle società tedesche, dei propri asset
finanzari); riverbera poi questi interessi sul proscenio dell'unione
europea, dove si tramutano in azioni stimolanti ovvero vincolanti.
E'
quindi utopistico interrogarsi/pensare/sperare – come da molti vedo
fare, quasi con affannoso pathos
e non so quanta autentica attesa – in un mutamento dell'attuale
politica monetaria/finanziaria/monetaria interna della Germania, come
pure del suo atteggiamento in sede europea: nulla cambierà, almeno
finchè rimarranno in vigore le attuali regole (e non solo a livello
europeo) e le debolezze altrui - finchè costituiranno un limite per
gli altri ed uno stimolo per se stessi – non potranno essere fatte
proprie.
D'altronde,
chi potrebbe rischiare a cuor leggero di mettere a rischio il proprio
livello di benessere, con il rischio che aiuti e buoni propositi
all'effetto pratico non aiutino gli altri a salire bensì chi sta su
a scendere.
D'altronde,
parlare di “aiutare” e “contribuire nell'aiutare” è un fatto
normale, in quanto si aiuta o per “non fare peggiorare” un
contesto o per “aiutarlo a migliorare, a crescere”.
Ma
se il contesto che si dovrebbe aiutare tende o a mantenersi su una
posizione passiva/iporeattiva/depressa sotto il profilo
sociale/politico/imprenditoriale, senza dare segni tangibili, anzi
più che tangibili di una fiera volontà di ripresa, con concrete
testimonianze di ciò, l'interrogativo che ci si può porre è il
seguente: perchè aiutare un soggetto che è moribondo, o che sta
morendo o che non fa nulla per guarire?
In
questi interrogativi sta anche la chiave dell'odierna situazione
italiana: il vecchio detto “aiutati che Dio ti aiuta” è sempre
valido.
E
non sembra che, almeno per quella che è la percezione che se ne può
avere dagli accadimenti, che “ci si aiuti molto”, ovverosia che i
comportamenti/gli atteggiamenti/le iniziative/i coup-de
théatre
(mi scuso per l'assenza dell'accento circonflesso)
italiani (e parlo, ovviamente, di quelli visibili; ossia, sotto gli
occhi di tutti: italiani e non) siano complessivamente coerenti con
le necessità espresse quotidianamente dalle condizioni del Popolo.
Urgono
come non mai (e la depauperazione del territorio da parte di aziende
che delocalizzano o le continue acquisizioni da parte di mani
straniere di aziende e marchi italiani, ne sono una prova) misure
strutturali rilevanti, tali – queste sì - da attirare capitali e
investimenti anche dall'estero e corredate da riforme “logiche,
praticabili, di lungo respiro” e da innovazioni persino nel modo di
ragionare/valutare/esprimersi/rapportarsi di una classe politica che,
complessivamente, vive una propria realtà del tutto distante dal
vivere quotidiano della gente. Una profonda volontà di modifica
espressa a livello nazionale, non può che attrarre larghissimi
consensi da parte di una popolazione in difficoltà, spesso stremata,
incerta, smarrita in assenza di prospettive degne di tale nome e
quindi desiderosa di affidarsi non dico ad “uno e un solo”
nocchiero, bensì ad un “equipaggio” in grado di condurre una
nave che, salvo miei errori di interpretazione/valutazione, appare
poco governabile e in balia di fortissime perturbazioni.
Tutto
ciò che sta avvenendo, si consuma in un contesto, quello odierno,
dove i dati indicano che le economie di Cina e Stati Uniti sono
pericolosamente prossime alla stagnazione.
E
questo nonostante che il Tesoro USA e la Federal Reserve immettano
continua liquidità nel sistema, e che il colosso Cinese stimoli in
modo imponente le attività produttive, delle costruzioni e delle
grandi opere.
Segno
ancora più evidente che la crisi è pressochè totale, salvo palpiti
di vita ora maggiori ora minori.
Segno,
altresì, che i rimedi che i (pochissimi) potenti del mondo
economico-finanziario ostacolano in nome di avidità e profitto “ad
ogni costo” non possono più tardare ad essere applicati: il rischio
pratico è che il corto-circuito in essere, possa tramutarsi in buio
totale.
Anche
la crisi che ha visto confrontarsi il gotha
delle Nazioni di fronte alle tematiche in terra di Siria, ha posto in
evidenza che – al di là di prese di posizione e dell'esibizione di
“muscoli” e aitanza militare – il Mondo è in realtà diviso
tra quanti hanno timori fortissimi nell'apertura di nuovi scacchieri
di guerra: specie se ciò potrebbe equivalere al rischio di
scoperchiare il “vaso di Pandora”. E anche tra quanti sono
favorevoli, in realtà – fatto salvo il ruolo che giocano alleanze
e trattati – i distinguo non sono pochi, poiché sono più i timori
che non la concreta attesa di benefici: anche a livello “umanitario”,
per popolazioni che - nell'iter
certamente non breve verso “liberazione, pace e democrazia” -
pagherebbero un prezzo comunque ancora più alto.
Ai
ruggiti anglo-francesi (questi ultimi provengono da una Nazione in
crisi, che riesce a tenere alta la testa perché non è stata ancora
attaccata – come è avvenuto per Grecia, Spagna e Italia – dalla
più feroce speculazione: poche mosse, pochi giorni e una Nazione è
in ginocchio, a colpi di spread
e di rating
sprezzanti e deprezzanti il reale valore di popoli, economie,
nazioni).
Il
gioco della cannibalizzazione in Europa si è svolto proprio così:
belle parole di solidarietà spese per chi è in difficoltà, ma
bocche spaventosamente irte di denti che si spalancano per fare un
solo boccone della vittima di turno, spogliata di ogni vitale
autonomia, preda di importanti condizionamenti, depredata dei propri beni maggiori e appiattita nella sua smarrita sovranità.
Condizionamenti
tali da sviluppare feroci lotte per il potere, all'interno, mentre ai
ruggiti che si odono non corrispondono azioni all'esterno degne di
tale nome.
Nazioni
che erano protagoniste sono diventate – nel migliore dei casi –
co-protagoniste, mentre in molte sono diventate mere comparse.
Anche
se le verità si sussurrano, ma non si dicono, la realtà e sotto gli
occhi di tutti: perchè se è vero che certi
politici/politologi/politicanti tentano di distoglire, di mentire, di
far vedere cose diverse, di turare naso e orecchi, di rendere la
bocca atona, gli occhi sono ancora vigili.
E
vedono un'Europa – ma non solo – preda di un neo-postcapitalismo
peggiore dei capitalismi e una cinica voglia di sopraffazione, degna
di un neo-neocolonialismo all'insegna del cannibalismo più sfrenato
(ma intelligente, in doppio petto).
Perchè
chi dovrebbe, non ci avvisa di come stiano veramente le cose?
Perchè
non si assumono misure per fronteggiare ciò?
Perchè
si tarda ad assumere urgentissime iniziative strutturali,
cincischiando in cose che – in realtà - non hanno bisogno di
cerotti o blande e temporanee panacee bensì di impietose cure
chirurgiche, di salvifiche amputazioni?
Quando
si smetterà di sostenere una fabbrica di stuzzicadenti in crisi
perchè non si consuma più tale prodotto, varando misure di
defiscalizzazione o altro, finanziando ristrutturazioni, elargendo
aiuti per sostenere i lavoratori in difficoltà )che “devono”
continuare a produrre stuzzicadenti; ad ogni costo), nella
consapevolezza che gli stuzzicadenti prodotti non saranno venduti
perchè la domanda – quantomeno per quell'azienda e per quel tipo
di prodotto – è inesistente o inconsistente?
Così
che la fabbrica che non chiude oggi, chiuderà domani: con ulteriori
risorse male indirizzate e male adoperate, sprecate.
Ora
dico, io non sono nessuno ed esprimo qui solo quello che in
moltissimi esprimono. Ma possibile che queste sensazioni – che
paiono presenti in modo concreto e ampio sul territorio – non
giungano a chi di dovere?
Domanda
forse retorica, ma che è bene porre. Anche se a livello delle più
alte Istituzioni dello Stato c'è senz'altro chi se ne occupa e si
preoccupa.
Occorre
fare chiarezza, dunque, senza che ci si prenda in giro e senza che
nessuno sia tentato di farlo.
Perché
– come esempio, uno tra tutti - non si evidenzia/studia un dato: ci
dicono che in Italia sono stati persi ca. 1.000.000 di posti di
lavoro; ma ci dicono anche che aziende italiane trasferitesi
all'estero o delocalizzatesi hanno creato lo stesso numero, ossia ca.
1.000.000, di nuovi posti di lavoro.
Allora?
Vorrei che se ne parlasse e che qualcuno mi fornisse lumi, anziché
ascoltare vaneggiamenti e vagheggiamenti socio/politico/idealistici
su questo o quel tema, del tutto ininfluente sulla vita dei
cittadini, sulla qualità della loro esistenza, sulle loro
aspettative di vita, sulle attese delle generazioni più giovani.
Perché ci si affanna tanto a parlare (ancora!) di "integrazione" quando questo concetto-utopia è naufragato, e da tempo, in tutte le Nazioni che vi avevano investito? Si prenda atto che esiste un concetto - sul quale sono basati gli interventi politico/amministrativo/finanziari improntati sulle "società multietniche"; preso atto, peraltro, che i primi a non integrarsi ovvero a volersi integrare (al di là di frasi fatte e di paroloni/concetti, dove la magica parola "integrazione" è posta come una ciliegina su torte variamente composite e scarsamente commestibili, quando non indigeribili) sono proprio gli stranieri ai quali apriamo le porte (meglio: lasciamo spalancate le porte, per entrare) rendendo disponibili nostre risorse importanti. Anzi preziosissime, in questo momento così grave dove di risorse per gli italiani - meno abbienti (eufemismo per definire i 5 milioni che vivono al di sotto della soglia di povertà, e senza contare le altre decine di milioni che vivono nel limbo compreso tra povertà e scarse risorse) non ce ne sono.
Questo punto, poi, ci porta a considerazioni - le più varie e importanti - sul tema della "sicurezza nazionale" di cui il concetto di "terrorismo" fa comunque parte: chi è questa gente che arriva? Chi sono e perché moltissimi non si lasciano identificare (sempreché l'identificazione possa essere poi certa e attendibile)? Dove vanno o come si immettono nelle maglie del nostro territorio? Domande pressanti che si fa ormai da tempo la gente, intimorita da situazioni di cui viene sempre e solo dipinto il "lato umano" e "commovente", ormai a stretto contatto con una realtà quotidiana che ci mette in rapporto con gente che, francamente, chiamare "importante risorsa" è molto arduo, anzi improponibile: per uno che lo possa realmente essere, e tanto di cappello per lui, non so quanti (e molti) non lo è. Lo testimoniano i fatti di droga, prostituzione, micro e macro criminalità, truffe, furti; senza sfiorare la drammatica nebulosa di traffico di esseri umani, induzione in schiavitù, traffico di organi e di neonati.
E queste sarebbero le "importanti, preziose risorse" cui sono state aperte le porte delle nostre Città?
C'è qualcuno che possa dirci su quali risorse possiamo contare - oltreché le "solite" tasse, o le "tasse sulle tasse" - per far ripartire l'Italia, e da chi/cosa provengano? E quanto ci costeranno, in termini di interessi? Non sarebbe meglio che il "debito sovrano" (vedasi quanto avvenuto in Giappone) fosse in mano agli Italiani e che gli interessi (buoni) li prendessero loro?
O, alfine, qualcuno ci dirà che "soldi freschi", denaro vero, non ce n'è e non ce ne viene dato da quell'Europa che sta ad osservare noi che boccheggiamo ma che ci ostiniamo a non morire, con lo stesso atteggiamento del sadico che guarda il pesce rosso dibattersi nella boccia ormai con poca acqua?
Possibile che quello che si ascolta per le strade, nei mercati, nei bar, alle fermate degli autobus, nei luoghi dove in genere si ritrovano più persone, non giunga alle orecchie di chi vive e ci propina tutt'altra realtà? Basterebbe poco - con praticità e in economia, senza bisogno di affidare costosi sondaggi a costose società di servizi - per "toccare con mano" queste realtà e prendere dolorosamente atto che il divario tra "Italia reale" e "mondo politico" è ormai diventato un abisso?
Ma la Spagna, che stava molto peggio di noi e le cui banche erano in default, come ha fatto a rialzarsi e ad invertire la rotta negativa, iniziando a recuperare quota e quindi stabilità? Ha utilizzato alchimie straordinarie e segrete? Ha adoperato "parole e pozioni magiche"? I mezzi a cui gli spagnoli possono attingere sono gli stessi che abbiamo a disposizione anche noi: allora? Credo che la differenza sta nella visione e nella considerazione che i politici spagnoli hanno degli interessi del popolo (anche lì straordinariamente provato, forse più che noi italiani) e della necessità di mettere da parte divisioni e particolarismi in nome di un senso unitario e di una identità nazionale molto forti. Ecco la ricetta spagnola, quindi: un po' di intelligenza, la consapevolezza che in un paese "morto" sarebbero "morti" la classe politica, i sindacati e i partiti, una presa di coscienza da parte dei governanti, privilegio dell'interesse nazionale, intrapresa di importanti misure strutturali unite a riforme e revisioni delle discipline interne fin qui in atto. Tutto ciò ha fatto rapidamente la differenza. Ma ha anche avuto il suo peso, in Europa, a Bruxelles e Strasburgo, la consapevolezza che se la Spagna - più che l'Italia - fosse realmente uscita dall'Unione Europea, "qualcosa" sarebbe cambiato: innescando una reazione incontrollabile che avrebbe messo a repentaglio il consolidamento delle posizioni dei paesi in migliori condizioni. Allora, aiutare la Spagna, ha avuto importanza maggiore che non altre decisioni e scelte. Senza clamori ma con grande concretezza.
Da noi, invece? Mah! A Roma gira la battuta dialettale, che invece della spending-review ci troviamo di fronte alla spending-deppiù : e la vox populi è anche in questo caso fondata. In assenza di qualcuno (anche in sede di pluralismo) che dica "fino a ieri si è fatto così, da oggi - per il bene del Paese e dei Cittadini - si deve fare così", la parola d'ordine dovrebbe essere "tagliare" spese superflue o inutili, eliminando doppioni, consulenze, trasferte, sovrastrutture inutili e - soprattutto - costose. Sembra che alle parole, non seguano i fatti: o almeno non seguono con quella concretezza che tutti vorremmo ascoltare e "toccare con mano". Tagliare, ridurre, eliminare... Queste le parole d'ordine!
Parlavo, poco sopra, di assenza di clamori, già!
L'opposto di quanto avviene in Italia dove sono in atto laceranti contrasti tra forze (o debolezze) politiche, tra soggetti anche di portanza istituzionale, dove ogni giorno si fa il tiro al piccione con qualcuno che possa balzare troppo in evidenza. Siamo lacerati tra parti che ormai si scontrano minacciosamente quotidianamente e più volte al giorno, al limite dello scontro fisico oltreché verbale, con linguaggio becero e spesso volgare, in una babele di idee e contro-idee, iniziative auspicate/auspicabili che naufragano o perdono di efficacia in breve tempo, di allarmismi, di serie prese di posizione in contesti poco "seriosi", di... Di tutto e di più in un caos montante che trova l'innesco (dichiarato) nel casus belli che si incentra sul personaggio che da vent'anni unisce/disunisce/allarma/fa sperare l'Italia. In ogni caso, il tutto si svolge sì nel caos apparente, ma un caos scandito da una sua propria liturgia, da una metodica antica (vecchia) che sopravvive però al passare degli anni, contraddistinta e sostenute da mantra ideologici il cui suono è ormai simile a quello di una campana spaccata.
Pensate ancora che di fronte alle indifferibili e tragiche urgenze del Paese, ci si possa perdere (e si possa dedicare spazio) davanti alle protesta di questa o quella parte, alle pretese di questo o quel gruppetto? C'è un'Italia perennemente mobilitata e mobilitabile, ora per questa ora per quella causa: giusta o meno che possa essere. Ma non sarebbe ora di rivedere e riformare il tutto?
C'era la guerra, e si decretò il blocco degli sfratti; c'era il dopoguerra, e si prorogò il blocco degli sfratti; c'era il primo e poi ci fu il secondo dopoguerra, e si prorogarono gli sfratti; sono trascorsi 70 anni dal 1943 e ancora si prorogano gli sfratti...
Vogliamo prendere finalmente atto che forse, dico forse, c'è qualcosa che non va? Che si sono favoriti interessi macroscopici e particolari? Che a pagare gli errori altrui è stato quel "ceto medio" praticamente scomparso, quella piccola e media industria sull'orlo del tracollo? Scomparsi per una costante opera di "livellamento verso il basso", spianato dall'applicazione di teorie dove si sosteneva il benessere diffuso e la quasi punizione dei "ricchi".
E c'è chi sostiene ancora l'utopia dello "stato sociale" di quello stato-mammella cui tutti possono suggere; ma chi produce ormai questo "latte"? Le mammelle sono avvizzite e l'erba scarseggia, anzi la terra è quasi tutta arsa. La stessa Svezia, madre in Europa (seppur nella sua efficiente realtà), lo ha abbandonato, e nei mondi (ancora) a matrice socialista il concetto di "stato sociale" equivale a quello di "povertà
Ma per favorire chi?
(fine della II° parte) Giuseppe Bellantonio
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