Ho avuto il piacere di leggere l'articolo odierno a firma dell'Ill. Prof. Salvatore Sfrecola, apparso su www.unsognoitaliano.it .
Per i suoi contenuti, per le chiavi di lettura offerte al Lettore, per l'obiettività e il rigore storico che lo contraddistingue, mi sono permesso di chiedere all'Autore di poterne trarre copia, mettendone a conoscenza un novero ancora maggiore di Lettori.
Sono certo che lo leggerete con attenzione, godendone gli spunti inconsueti.
Graie e buona lettura!
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Evidente
e determinante il ruolo del Re
25
luglio la caduta del regime
di
Salvatore
Sfrecola
“La
crisi del regime”, come l’avrebbe definita Benito Mussolini
intorno alle 3 del 25 luglio, nell’abbandonare la sala del Gran
Consiglio, si era consumata nella nottata, quando il dibattito aveva
messo in evidenza un ampio consenso sul testo dell’ordine del
giorno del Presidente della Camera, Dino Grandi, durissimo nei
confronti del Duce. Chiedeva l’“immediato ripristino di tutte le
funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al
governo, al parlamento, alle Corporazioni, i compiti e le
responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie
costituzionali”. Per Grandi “il popolo italiano fu tradito da
Mussolini il giorno in cui l’Italia ha cominciato a germanizzare. È
quest’uomo che ci conduce sulla scia di Hitler; egli abbandonò la
via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra, e ci
ha ingolfati in una guerra che è contro l’onore, gli interessi e i
sentimenti del popolo italiano”.
Mussolini,
secondo testimonianze univoche, non reagisce. “Il Duce è stanco”
– scrive Alberto De Stefani, economista, ministro, autore della
riforma dell’amministrazione, in Gran
Consiglio ultima seduta,
da pochi giorni nelle librerie con una prefazione di Francesco
Perfetti (Le Lettere, Firenze), uno dei protagonisti della seduta.
“S’abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo
abbandono”. Tutti notano questo atteggiamento rinunciatario. E ne
scriveranno suggerendo varie interpretazioni. Per i più è come se
avesse la consapevolezza di essere arrivato al capolinea. Che le
manchevolezze dell’azione militare, che denuncia ripetutamente e
impietosamente nelle quasi due ore del suo intervento, sono a lui
addebitabili, quale responsabile della conduzione delle operazioni
sul campo e per essere stato per due decenni ministro della guerra
senza rinnovare soprattutto l’Esercito, entrato nel conflitto con
il fucile ’91 (che significa 1891!), l’armamento della prima
guerra mondiale! E sì che proprio Grandi, reduce dall’esperienza
di Ambasciatore a Londra, aveva ripetutamente segnalato al Duce
l’elevato livello degli armamenti inglesi e lo spirito combattivo
di quel popolo che Mussolini insisteva a svilire, fino a definire
quello di Sua Maestà l’ultimo esercito del mondo, al punto che
Winston Churchill, annunciando alla Camera dei comuni la fine delle
ostilità con l’Italia, avrebbe ironicamente affermato che
“l’ultimo esercito del mondo ha battuto il penultimo”.
Non
è solo la conduzione delle operazioni militari sullo sfondo della
riunione del Gran Consiglio, organo del Partito Fascista
costituzionalizzato nel 1928 con funzioni consultive del Governo,
ignorato da anni (non si riuniva dal 1939) anche al momento
dell’entrata in guerra. Infatti De Stefani scrive che “le
prerogative del Gran Consiglio gli erano state sottratte dal suo
stesso fondatore”.
L’ordine
del giorno Grandi ha un taglio politico-istituzionale inequivocabile,
a cominciare da quell’invito pressante al ritorno alla legalità
costituzionale che il Presidente della Camera, una delle personalità
più autorevoli e popolari del regime, al punto da essere indicato
come successore di Mussolini, e che era stato il motivo dominante
della sua azione politica nell’ambito del regime fascista, anche da
Ministro degli esteri e Guardasigilli. Grandi oppone – ricorda De
Stefani – alla “mistica della cieca obbedienza” la “mistica
della legalità che è presidio spirituale e istituzionale della
giustizia tra gli uomini e della loro eguaglianza giuridica”. E,
pertanto, chiede l’abolizione del regime totalitario, il ritorno
alla Costituzione e la restituzione di tutti i diritti parlamentari e
delle prerogative della Corona. Il Presidente della Camera non dà
tregua al Duce: “voi credete ancora di avere la devozione del
popolo italiano? La perdeste il giorno che consegnaste l’Italia
alla Germania. Vi credete un soldato: lasciatevi dire che l’Italia
fu rovinata il giorno in cui vi metteste i galloni di maresciallo. Vi
sono già centinaia di migliaia di madri che dicono: Mussolini ha
assassinato mio figlio”.
Anche
De Stefani nel suo diario si rivolge direttamente a Mussolini. “Che
cosa vi domandiamo? Il ritorno al rispetto delle leggi, alla loro
libera applicazione … Il contrasto tra il partito e lo Stato come è
da noi concepito è sempre più profondo ed esso è la causa della
scissione tra il fascismo e la Nazione, per cui essa considera il
fascismo una struttura parassitaria e fonte di arbitrio”.
Con
Grandi voteranno “sì” in 19 (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella,
Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico,
De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Marinelli, Pareschi e
Rossoni). 7 i “no” degli irriducibili (Biggini, Buffarini Guidi,
Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanova). Suardo
si astiene. Farinacci avrebbe votato il proprio ordine del giorno se
Mussolini non avesse chiuso la discussione.
Gli
storici s’interrogano ancora, cercando di comprendere come e da chi
sia stato preparato l’evento, ed anche sul rilievo costituzionale
delle scelte del Sovrano, in quel pomeriggio del 25 luglio, a Villa
Savoia, quando il Re accetta le dimissioni, spontanee, va
sottolineato, del Duce e conferisce l’incarico di formare il
governo al Maresciallo Pietro Badoglio. Anzi l’aveva già
conferito.
Per
tutta la giornata venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto
accaduto. Solo alle 22,45 la radio trasmette il comunicato,
stringatissimo, come d’uso: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha
accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo
ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere
Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e
Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro
Badoglio”.
Fu
una forzatura costituzionale? Per qualcuno fu addirittura un colpo di
stato, preparato e condotto in porto da Vittorio Emanuele III.
Accuratamente preparato, ormai non ci sono dubbi, probabilmente da
due o tre anni, dalla Corona alla quale i “congiurati”
intendevano restituire non soltanto il Comando delle Forze Armate ma
anche le prerogative statutarie che il Regime aveva compresso
sistematicamente.
Per
il Re la sua azione è legittimata dall’ordinamento statutario.
Egli, in tal modo, “tende a ricondurre l’esperienza fascista
all’interno del quadro costituzionale albertino, negando che il
Ventennio abbia potuto annullarlo completamente” (P. Colombo,
Storia
costituzionale della monarchia italiana,
Laterza, Bari, 2001, 113)
L’antecedente
più immediato è l'udienza del Re al Presidente della Camera il 4
giugno 1943 (il 22 luglio Grandi avrebbe incontrato prima Ciano, a
casa di Bottai, poi lo stesso Mussolini). Nell’occasione Vittorio
Emanuele, da sempre ligio alle regole costituzionali, suggerì a
Grandi di provocare un voto del Parlamento o del Gran Consiglio per
lui base legale necessaria per deporre Mussolini. Ciò che solo il Re
poteva fare una volta ripristinati i poteri statutari. Sintomatico il
rinvio all’art. 5 dello Statuto Albertino, la Carta costituzionale
del Regno.
La
scelta in questo senso è chiarissima nel documento Grandi. Essa è
inglobata nell’ordine del giorno di un organo costituzionale, il
Gran Consiglio. Nel colloquio con Grandi Vittorio Emanuele aveva
affermato: “sono un Re costituzionale e so perfettamente che il
Parlamento non è in grado di funzionare: ma, ciò nonostante, una
qualche indicazione mi occorre che mi venga da organi dello Stato e
del Paese, in modo inequivoco e certo” (Bianchi, Perché
e come cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime,
Mursia, Milano, 1972, 349). Con la conseguenza che alla luce di
quella votazione va valutata anche la decisione del Re di incaricare
di formare il Governo il Maresciallo Badoglio, senza che fosse
sentito il Gran Consiglio, come prevedeva la legge istitutiva.
Procedura che ha fatto dire a taluno che Vittorio Emanuele III
avrebbe compiuto un vero e proprio colpo di stato. Conclusione
affrettata, sostenuta da giuristi antifascisti, comunque
antimonarchici, nonostante in regime di statuto flessibile la caduta,
per votazione dell’organo supremo del regime, degli istituti tipici
di esso dovesse travolgere, nel quadro di un’emergenza
costituzionale, il Fascismo e le leggi che lo sostenevano.
Non
c’è dubbio, infatti, che le modifiche apportate con legislazione
ordinaria all’impianto statutario trovavano comunque un limite
nell’essenza stessa della monarchia costituzionale. Come nel caso
della successione al trono sul quale il Gran Consiglio si sarebbe
dovuto pronunciare, in contrasto con la legge salica, richiamata
dall'art. 2 dello Statuto del Regno.
Chi
fu il motore della “congiura”? Una iniziativa che parte da
lontano, si è detto, immaginata in vari modi d’intesa con il Re
che, secondo testimonianze non equivoche, da tempo meditava di
allontanare il “collega” Primo Maresciallo dell’Impero, con il
quale non sopportava di condividere quel grado che, per definizione,
doveva essere unico, rendeva visibile quella “diarchia” che
ledeva le prerogative costituzionali del Re ed il quadro
istituzionale della Monarchia parlamentare. Ad esempio la legge 24
dicembre 1925, n. 2263, modifica l’impianto statutario secondo il
quale “al Re solo appartiene il potere esecutivo” (art. 5)
stabilendo che “il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo
del suo Governo”, introduce la figura del “primo ministro” e
gli attribuisce la qualifica di “capo del governo”. Una norma
dalla quale i giuristi fascisti giungono alla conclusione che “il
governo non comprende il re e corrisponde piuttosto all’organo
tramite il quale la Corona esercita la funzione esecutiva; essere
capo dell’esecutivo, dunque, non significa essere capo del governo”
(P. Colombo, Storia
costituzionale,
cit. 97). “Si assiste, in sostanza, ad un rovesciamento della
logica della controfirma ministeriale: qui sembra essere il re a
“controfirmare” gli atti dei ministri, piuttosto che viceversa”
(ivi).
A
proposito del grado di Primo Maresciallo dell’Impero, poi, è
noto che, nel contrasto tra il Re ed il Duce, che intendeva
fregiarsene, fu richiesto il parere del Prof. Santi Romano,
Presidente del Consiglio di Stato, il quale giunse alla conclusione
che con la duplice attribuzione non sarebbe stata messa in
discussione la prerogativa regia di capo dell’esercito. Vittorio
Emanuele non apprezzerà molto il parere dell’insigne giurista,
tanto da dire: “i professori di diritto costituzionale,
specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il
professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le
tesi più assurde: è il loro mestiere”.
Non
è dubbio, infatti, che Vittorio Emanuele III, cui certo in alcuni
momenti non ha giovato dinanzi alla storia il suo formalismo
costituzionale (“La Camera e il Senato sono i miei occhi e le mie
orecchie”, era solito dire), mal sopportava l’invadenza del
“cugino” dittatore, soprattutto in quella fase del ventennio
nella quale il Duce aveva preso posizioni antinglesi che il Re non
gradiva e che non a caso compaiono nell’invettiva di Grandi che
denuncia l’abbandono della “via di una leale e sincera
collaborazione con l’Inghilterra”. Una collaborazione che
Vittorio Emanuele aveva patrocinato ai tempi della prima guerra
mondiale.
Alla
resa dei conti il Duce sembra rassegnato ad uscire di scena. Troppe
le testimonianze in questo senso. Come dimostra l’esperienza della
Repubblica Sociale Italiana alla quale fu forzato, anche se pensò
fosse una scelta idonea ad evitare l’occupazione militare
dell’Italia del Nord con le conseguenze tragiche che erano state
sperimentate qua e là per l’Europa.
I
fascismo cade all’alba del 25 luglio, senza spargimenti di sangue,
al termine di una drammatica ma ordinata votazione in cui i gerarchi
rimettevano il potere nelle mani della Corona. Mussolini non si
oppone, lascia fare. Perché fu così imbelle? Commenta 70 anni dopo
Sergio Romano sul Corriere
della Sera:
“Se i buchi nella barca non li avesse fatti lui, verrebbe voglia di
concludere che, fra i molti protagonisti del 25 luglio, Mussolini non
fu il peggiore”.
La
resa dei conti era nell’aria, dunque, e nella realtà delle cose,
nell’andamento disastroso delle operazioni militari culminate nei
giorni precedenti nell’invasione della Sicilia, là dove l’Esercito
avrebbe dovuto fermare gli alleati “su quella linea che i marinai
chiamano bagnasciuga”, come aveva detto in un discorso del 24
giugno, confondendo la linea di “fior d’acqua”, la parte di
superficie della carena della nave limitata superiormente dal piano
di galleggiamento, con la “battigia”, che si bagna e si asciuga
per effetto del moto ondoso.
L’aveva
intuito il pomeriggio del 24 Donna Rachele. Ha come un presentimento,
consiglia al marito, che si appresta ad andare a Palazzo Venezia, di
far arrestare tutti i gerarchi.
All’alba
del 25 luglio e nelle ore successive anche lei si sarebbe resa conto
del tradizionale, italico abbandono del perdente. A cominciare dai
“fedelissimi”, come i Moschettieri
del Duce,
dileguatisi alla chetichella, in borghese, da Palazzo Venezia.
Ugualmente gli ardori del Console Galbiati, comandante della Milizia,
che aveva minacciato di mobilitare le truppe “fedeli”, si
smorzano rapidamente. Rimase al suo posto, immobile. Mentre
Carabinieri ed Esercito tenevano le posizioni prestabilite,
concordate dalla Stato maggiore d’intesa con il Sovrano che avrebbe
dovuto affrontare ancora ben altre, impegnative prove per
salvare il salvabile.
28
luglio 2013 Salvatore
Sfrecola